dal manifesto

     
    
 
    
 

10 Febbraio 2002 
  
 
  
I brevetti in tribunale 
Nelle aule dei tribunali le aziende della vecchia e della nuova economia
cercano di estendere i loro diritti di proprietà intellettuale 
FRANCO CARLINI 




Una causa legale dietro l'altra, anche così va avanti la Nuova Tecnologia.
Molte sono assurde, altre sono pure azioni anticoncorrenziali, diverse sono
di tipo parassitario. Ma di una cosa non si può dubitare: gli studi legali,
agguerritissimi e specializzati, guadagnano molto in questi processi;
quanto ai consumatori, quello è un altro discorso. Ma sarebbe sbagliato, al
tempo stesso, considerare queste "follie" come delle "follie", appunto:
esse fanno parte costitutiva di un settore sempre più competitivo dove i
beni immateriali - le idee - spesso contano più dei prodotti. Qui di
seguito una carrellata di casi che testimoniano della crescente
aggressività con cui le aziende della vecchia e della nuova economia
cercano di estendere i loro diritti di proprietà intellettuale al di là di
ogni ragionevole equilibrio.
Il primo caso vede come protagonista l'operatore telefonico inglese, ex
monopolista, British Telecom. Gigante addormentato certo, e pieno di
debiti, ma evidentemente dotato di archivisti di valore: uno di loro,
scavando negli armadi, scoprì che nel lontano 1976 la società aveva
depositato e ottenuto un brevetto per un "Sistema di trattamento
dell'informazione e relativo apparato terminale". E' il brevetto americano
numero 4.873.662. Secondo la società, quel brevetto descrive esattamente il
sistema di collegare un testo con un altro, i link del World Wide Web. E
perciò chiunque utilizzi un sistema ipertestuale dovrebbe ottenere una
licenza da Bt e pagare una debita royalty.
Nel giugno del 2000 British Telecom aprì le ostilità legali e domani,
lunedì 13 febbraio, la causa verrà discussa presso il tribunale di White
Plains, New York. Infatti l'azienda citata in giudizio per violazione del
copyright è la Prodigy, che fu uno dei primi operatori di rete americani.
La scelta dei legali di Bt è stata di cominciare con un primo procedimento
tipo, per vedere come va: se l'esito fosse per lei favorevole, allora
potrebbe denunciare tutto il mondo, in astratto pretendendo un risarcimento
da ognuno dei 125 milioni di host computer della rete Internet.
Un portavoce della società ha dichiarato: "Crediamo di avere il dovere di
difendere la nostra proprietà intellettuale e ci aspettiamo che le aziende
paghino una ragionevole royalty, basata sui ricavi che hanno goduto
attraverso l'uso della nostra proprietà intellettuale".
In questa storia orribile, che cerca di incassare a posteriori i frutti di
una innovazione tecnica e sociale di fatto promossa e diffusa da altri, ci
sono due altri protagonisti che dovrebbero dire la loro. Uno è il
leggendario Ted Nelson, l'informatico sognatore che per primo, negli anni
`60 immaginò un sistema di ipertesti, che collegasse tutta l'umana
conoscenza. Il suo libro "Literary Machine" è del 1965. Esiste poi un
filmato storico, conservato all'università di Stanford e visibile sul suo
sito: in esso Douglas Engelbart, l'inventore del mouse, mostra come
spostando il cursore su di una parola, e ciccando, compaia un altro testo
collegato al primo. Cade dunque uno dei requisiti della brevettabilità: il
trattarsi di un'invenzione originale.
Una seconda causa legale connessa ai temi della è arrivata in appello rete
nei giorni scorsi e di nuovo il presunto proprietario di una parola, è
stato sconfitto. Ha vinto invece Terri Welles, che nel lontano 1981 fu una
ragazza PlayBoy, venendo anche proclamata Playmate dell'anno. Nel 1997,
ormai donna matura, decise di diventare imprenditrice web, capitalizzando
un po' della sua gloria di un tempo. Aprì dunque un suo sito
(www.terriwelles.com) e per meglio farlo conoscere inserì nei Meta Tags
della Home page la parola "Playmate". I Meta Tags fanno parte
dell'intestazione delle pagine Html e non compaiono nella visualizzazione;
contengono delle informazioni meta-testuali relative a quella pagina come
la data, l'autore e una serie di parole chiave che i motori di ricerca
utilizzano per meglio classificarle.
Inserendo la parola "Playmate", Terri aumentava la probabilità che battendo
quel tema in un motore di ricerca, al navigatore venisse segnalato anche il
suo sito. Ma la casa editrice di Playboy la citò in giudizio per violazione
del marchio, chiedendo un risarcimento di 5 milioni di dollari. Sostenne in
particolare che l'inserimento del termine tra i Meta Tags poteva avere
l'effetto indebito di trarre in inganno i navigatori che battendo la parola
"Playmate" intendono cercare il sito di Playboy. Il 20 giugno 1998 il
giudice Judith N. Keep assolse Terri perché la parola in questione descrive
ragionevolmente un risultato importante della sua carriera di modella. Il
giudice aggiunse anche che il fair use del marchio non poteva creare
confusione e lo fece appoggiandosi a una famosa sentenza del giudice
Holmes, del lontano 1924, secondo il quale "quanto un marchio è usato in
modo da non trarre in inganno il pubblico, non c'è alcuna santità nella
parola tale da impedire su usarla. Non è un taboo". La settimana scorsa la
Corte d'Appello ha confermato la sentenza di primo grado.
Sempre in questa settimana è stata aperta una causa di segno opposto. E'
l'avvocato generale dello stato di New York a chiamare in giudizio una
società di software, la Network Associates, che vende programmi per la
sicurezza informatica, tra cui quelli, molto diffusi chiamati McAfee
antivirus. Questa società aveva inserito nelle confezioni e anche sul suo
sito web un obbligo di questo tipo: "Il cliente non pubblicherà alcuna
recensione di questo prodotto senza il consenso preventivo della Network
Associates". Una bella pretesa, non c'è dubbio, la quale, secondo lo stato
di New York, viola il Primo Emendamento della costituzione che tutela la
libertà di espressione. La McAfee si difende sostenendo che la clausola fa
parte di un contratto di tipo civilistico e che la libertà di parola non
c'entra per niente. Le associazioni dei consumatori sono schierate
ovviamente a favore della libera recensione in libero stato. E ci
mancherebbe altro.
Questa causa riporta alla mente quella che vide come imputati lo svedese
Eddy Jansson e il canadese Matthew Skala. Nel 1999 essi realizzarono un
software chiamato CPHack che agiva come antidoto nei confronti di uno dei
più diffusi programmi di filtro, il Cyber Patrol. Grazie a CPHack un
impiegato che si trovasse con la navigazione bloccata dalla "pattuglia
cibernetica", poteva sboccarla e vedere quali siti erano considerati
pericolosi. Immediata fu la causa legale per violazione del copyright.
Causa anomala peraltro, giacché il software Cyber Patrol non era stato
copiato né alterato, ma piuttosto, attraverso una tecnica di "reverse
engineering" era stato realizzato un altro software (il CPHack) che ne
rivelava l'elenco. Il tutto per scopi di critica, attività pienamente
permessa da ogni norma sul copyright.
La causa finì nel nulla perché Cyber Patrol, per tagliar corto con il
groviglio legale in cui si era infilata, acquistò il CPHack dai due
creatori (garantendo che avrebbe cessato ogni attività legale contro di
loro) e ne bloccò l'ulteriore diffusione. Ma intanto, come spesso succede
sull'Internet, il software era già volato via, propagandato e diffuso da
una moltitudine di siti che ne avevano fatto una bandiera libertaria.




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