Come volevasi dimostrare: la foiba non c'è.


1) La foiba non c’è: chiesta l’archiviazione
Dalle indagini non è emerso alcun riscontro al documento del 1945 che segnalava 
la presenza di una fossa comune a Rosazzo
2) Lettera aperta a "Internazionale" sul Giorno del ricordo




=== 1 ===


Si veda anche:


SULLA PATACCA DELLA NON-FOIBA DI ROSAZZO
http://www.diecifebbraio.info/2016/03/sulla-patacca-della-non-foiba-di-rosazzo/


È ufficiale: la «foiba volante del Friuli» non esiste. E, a proposito di 
#foibe, una lettera aperta a Internazionale (di Nicoletta Bourbaki, 23.12.2016)
...  la foiba volante, nonostante la generosa copertura mediatica offerta dal 
Messaggero Veneto – diretto (allora) da Tommaso Cerno – a colpi di presunti 
scoop susseguitisi un giorno sì e l’altro pure, aveva già da tempo interrotto 
l’appassionante tour che l’aveva portata a visitare una decina di località 
friulane...
http://www.wumingfoundation.com/giap/2016/12/la-foiba-volante-non-esiste/


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http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2016/12/19/news/la-foiba-non-c-e-chiesta-l-archiviazione-1.14593229


La foiba non c’è: chiesta l’archiviazione


Dalle indagini non è emerso alcun riscontro al documento del 1945 che segnalava 
la presenza di una fossa comune a Rosazzo


di Luana de Francisco, 19 dicembre 2016


Nella zona di Rosazzo, e del Bosco Romagno in particolare, non esiste alcuna 
foiba contenente le salme di un numero imprecisato di persone - indicato tra un 
minimo di 200 e un massimo di 800 -, trucidate sul finire della seconda guerra 
mondiale per mano o, comunque, su ordine dei partigiani Sasso e Vanni.
È questa la conclusione cui è giunta la Procura di Udine, dopo dieci mesi di 
indagini condotte a scavalco tra il Friuli, alla ricerca della presunta fossa 
comune, e Roma, negli archivi dei ministeri agli Esteri e alla Difesa, dello 
Stato Maggiore dell’Esercito e dei Servizi segreti, dove solo avrebbero potuto 
essere conservati documenti comprovanti la sua presenza. Il risultato è stato 
negativo su tutta la linea e questo ha convinto i carabinieri di Palmanova a 
ritenere «non più utilmente esperibile altra attività», e il procuratore 
aggiunto Raffaele Tito, che ha coordinato l’inchiesta, a chiedere al gip 
l’archiviazione del procedimento.
A mettere in moto la macchina giudiziaria erano state le parole con cui Luca 
Urizio, presidente della Lega Nazionale di Gorizia, nel Giorno del Ricordo del 
febbraio scorso, aveva raccontato del ritrovamento alla Farnesina di un 
documento del 12 ottobre 1945, in cui si parlava appunto dell’infoibamento di 
centinaia di persone. La rivelazione era stata riferita dal Messaggero Veneto e 
prontamente fatta oggetto di un’informativa dell’Arma.
«Da quanto ricostruito – scrive il pm – sembra di poter ritenere, seppur non 
con totale certezza, che l’autore del documento, forse un agente segreto di 
nome Ermete, abbia esagerato o ingigantito fatti, peraltro di per sè comunque 
gravi e tragici, effettivamente avvenuti». Il che, quindi, non significa negare 
che in quel periodo e in quella zona avvennero episodi di sangue. Prova ne sia 
la nota a firma dell’allora sindaco di Premariacco, Dante Donato, inviata il 19 
maggio 1945 alla Procura di Udine per segnalare che «nel territorio di questo 
Comune si trovano sparse nella campagna e sepolte quasi a fior di terra le 
salme di circa 60 persone in parte sconosciute, uccise dai partigiani, perchè 
ritenute spie o collaboratrici dei tedeschi». Con quella comunicazione si 
chiedeva l’autorizzazione a raccogliere i cadaveri (quelli riesumati in zona 
Rocca Bernarda sono risultati 41) e trasportarli in cimitero «anche per motivi 
igienici».
Nell’aprire un fascicolo a carico di ignoti - i due presunti responsabili Sasso 
e Vanni, al secolo Mario Fantini e Giovanni Padoan, nel frattempo sono entrambi 
deceduti -, Tito aveva ritenuto di applicare astrattamente una delle ipotesi 
previste all’articolo 3 della cosiddetta Amnistia Togliatti (22 giugno 1946): 
strage o sevizie particolarmente efferate, tali da escludere l’effetto 
estintivo del reato di omicidio semplice. La prova certa dell’esistenza della 
fossa, indispensabile per formulare la correlata ipotesi accusatoria, però, non 
è emersa.
Nulla nè dalle ricerche sul campo, propedeutiche a una significativa attività 
di scavo, nè dall’esame del materiale cartaceo acquisito negli uffici 
ministeriali, nè dalla testimonianza di chi avrebbe potuto o dovuto sapere. E 
cioè del figlio dell’allora sindaco di Premariacco, che alla Polizia 
giudiziaria ha invece riferito di non avere mai sentito dal padre alcunchè in 
proposito, e degli stessi Padoan e Fantini, che in vita non è risultato abbiano 
mai fatto cenno alla fantomatica fossa di Bosco Romagno.
E visto che di un’indagine simile si era recentemente occupata anche la Procura 
di Bologna, Tito ha voluto tentare anche quella strada, nella seppure remota 
possibilità di un qualche «riferimento trasversale». L’esito è stato a sua 
volta negativo. Così come vano è stato lo sforzo di memoria chiesto al 
luogotenente che all’epoca lavorava alla stazione di Cormòns e che, pur 
ricordando di un «casolare» nel Bosco Romagno usato come base logistica dai 
partigiani, di un «pozzo dove venivano occultate le armi», di «alcune uccisioni 
in località Rosazzo-Poggiobello», nulla ha invece detto di sapere, neppure 
indirettamente, di così tante persone gettate in una fossa comune.
E infine i documenti e le annotazioni di polizia messi a disposizione 
dall’Agenzia informazioni e sicurezza esterna, dove Tito si è recato 
personalmente il 21 ottobre. Niente neppure lì, tanto meno all’interno dei 
fascicoli personali di Sasso e Vanni.
«Il collega non ha lasciato niente di intentato – ha affermato il procuratore 
Antonio De Nicolo –. Condivido quindi pienamente la scelta di non tenere aperta 
oltre un’inchiesta di cui non sono prevedibili margini di sviluppo».




=== 2 ===


http://www.internazionale.it/notizie/2016/12/20/lettera-aperta-giorno-del-ricordo



Lettera aperta sul Giorno del ricordo 
<http://www.internazionale.it/notizie/2016/12/20/lettera-aperta-giorno-del-ricordo>
Riceviamo e volentieri pubblichiamo.


Riteniamo Internazionale una rivista di qualità, nella quale il lavoro 
giornalistico viene eseguito con competenza, obiettività e indipendenza. 
L’informazione fornita da Internazionale non ci sembra condizionata da mode, 
ossequiosa verso i potenti di turno o allineata al pensiero mainstream.


Proprio per questo ci sembra che il modo in cui lo scorso anno è stato trattato 
sul sito l’argomento del Giorno del ricordo non sia all’altezza della 
professionalità che caratterizza il settimanale.


Il 10 febbraio 2016, sulla versione online di Internazionale è uscita una 
scheda sulla complessità del “Confine Orientale”, dal titolo Cosa sono le foibe 
<http://www.internazionale.it/notizie/2016/02/10/cosa-sono-le-foibe>, che 
contiene numerose inesattezze. Anziché fare chiarezza su un tema cruciale che 
andrebbe trattato in maniera accurata, sono state riproposte cifre 
sensazionalistiche e approssimazioni che fanno ormai parte dell’arsenale 
retorico del Giorno del ricordo pur senza essere sostanziate da basi 
storiografiche.


In particolare, vorremmo segnalare i seguenti punti critici (in corsivo le 
parti estratte dall’articolo di Internazionale del 10.2.2016).


Dove


“Alla fine della seconda guerra mondiale l’esercito jugoslavo occupò Trieste e 
l’Istria (fino ad allora territorio italiano) per riconquistare i territori 
che, alla fine della prima guerra mondiale, erano stati negati alla Jugoslavia”.


Trieste e l’Istria in quel momento non erano più territorio italiano: dopo l’8 
settembre erano state sottoposte all’amministrazione diretta tedesca e di fatto 
annesse al Terzo Reich con la denominazione “Zona di Operazioni del Litorale 
Adriatico”.


Va inoltre ricordato che dal 1918 al 1943 la Venezia Giulia fu sì 
amministrativamente italiana, ma oltre la metà della sua popolazione era 
composta da sloveni e croati. Lo stato italiano mise in atto un’operazione di 
“bonifica etnica” tesa ad eliminare completamente i non italiani dal 
territorio, attraverso violenze, leggi che limitavano l’uso delle loro lingue 
in ambito pubblico e privato, lo scioglimento delle associazioni culturali, 
sportive e ricreative, la confisca delle proprietà e delle maggiori iniziative 
economiche, la chiusura delle scuole, l’italianizzazione forzata di nomi, 
cognomi e della toponomastica e la sistematica spinta all’emigrazione o al 
completo assorbimento e omologazione nella maggioranza italiana.


Inoltre anche la mappa acclusa all’articolo 
<http://www.internazionale.it/notizie/2016/02/10/cosa-sono-le-foibe> risulta 
incoerente. Basovizza è oggi in territorio italiano e sulla mappa dovrebbe 
avere il nome italiano. Il “punto giallo” fa pensare sia in territorio sloveno.


“In Istria sono state trovate più di 1.700 foibe”.


Questo dato, completamente inutile, ha solo l’effetto di aumentare l’enfasi 
sensazionalistica della propaganda irredentista. Le foibe sono fenditure 
carsiche: in molte di esse non vi fu alcuna “sepoltura”.


“Uno dei principali monumenti alle vittime si trova a Basovizza, alle porte di 
Trieste. Qui è stata trovata una foiba che in realtà era il pozzo di una 
miniera di carbone scavata nella roccia agli inizi del Novecento e poi 
abbandonata. Vi furono gettate almeno 2.500 persone nei 45 giorni dal 1° maggio 
al 15 giugno 1945”.


Dai documenti alleati dell’epoca emerge invece che dalla “foiba” di Basovizza, 
oggi eretta a monumento del Giorno del ricordo, nella seconda metà del 1945 
vennero recuperati una decina di corpi, per lo più soldati tedeschi, e carcasse 
di cavalli (cfr. J. Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Einaudi 2009). Non vi 
è alcun riscontro documentale di numeri come quelli riportati sopra.


Quando e perché


Il fenomeno “foibe” è riferito fondamentalmente a due eventi distinti, con 
dinamiche e modalità diverse: il primo è successivo alla dissoluzione 
dell’autorità italiana con l’armistizio dell’8 settembre ’43 e riguardò 
principalmente l’Istria, il secondo è conseguenza della presa di potere da 
parte dei partigiani e dell’Esercito Popolare Jugoslavo nel maggio del ’45.


“La prima ondata di violenza esplose dopo la firma dell’armistizio, l’8 
settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi si vendicarono 
contro i fascisti e gli italiani non comunisti”.


Nella presa di controllo del territorio, occupato fino a quel momento dalle 
forze italiane, da parte della popolazione locale (sia slovena e croata che 
italiana), ci furono indubitabilmente anche esecuzioni sommarie, ma va 
sicuramente considerato come queste furono una risposta ai crimini italiani 
nella regione che proseguivano da un ventennio (si noti come molti degli autori 
di questi atti vennero poi processati dagli stessi partigiani). 
Un’interpretazione in chiave esclusivamente ideologica alle violenze del 
settembre del 1943 (“nemici del popolo” - “italiani non comunisti”) non è 
storicamente corretta, né ci sono prove a riguardo. Molti studiosi invece 
riconoscono che nel momento di sfaldamento dell’autorità seguente all’8 
settembre ’43 si verificò una “jacquerie”, una sorta di rivolta contadina, 
contro coloro che avevano detenuto il potere fino ad allora. L’insurrezione 
istriana – non dalmata – del 1943 ha poco a che fare con l’italianità o meno 
delle vittime, visto che erano italiani anche molti degli insorti. “La violenza 
insurrezionale si rivolse contro la locale classe dirigente considerata 
compromessa con il fascismo e contro i possidenti” (cfr. P. Purini, Metamorfosi 
etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria, 
Kappa Vu, Udine 2014, pp. 192-193). Inoltre indicare come data di riferimento 
il settembre del 1943, omettendo invece le stragi e le deportazioni fasciste 
nella regione, induce all’impropria interpretazione che gli italiani vadano 
considerati semplicemente come vittime. È inoltre totalmente omesso il fatto 
che buona parte delle uccisioni del 1943 in Istria avvenne mentre era in corso 
l’occupazione nazista che portò all’eliminazione di circa 5.000 persone tra 
civili e partigiani (cfr. ibid.).


“La violenza aumentò nella primavera del 1945”.


Le violenze nazifasciste non furono certamente inferiori a quelle degli 
jugoslavi, anzi. La popolazione civile di Trieste e della Venezia Giulia subì 
rappresaglie pesantissime per le azioni dei partigiani sul territorio (basti 
pensare ai 269 abitanti del villaggio di Lipa, in maggior parte donne, arsi 
vivi nella primavera del 1944, ai 51 ostaggi impiccati nel Conservatorio di 
Trieste dell’aprile del 1944 e ai 71 fucilati al poligono di Opicina di un anno 
dopo). L’entrata dei partigiani a Trieste nel maggio del 1945 significò invece 
la liberazione dei prigionieri della Risiera di San Sabba, l’unico campo di 
concentramento nazista ora in territorio italiano dotato di forno crematorio, 
nel quale morirono circa 5.000 persone e che vide il passaggio di altre 20.000 
per i campi di sterminio dell’Europa centrale.


Non intendiamo affatto minimizzare la violenza del post-liberazione, alla base 
della quale vi erano la rivalsa per le passate atrocità nazifasciste, i 
regolamenti di conti personali e la volontà di attuare una rivoluzione 
comunista includendo Trieste nella Jugoslavia socialista. Ma non si può 
lasciare intendere che la Trieste in mano ai nazisti fosse un posto “meno 
violento” della Trieste liberata senza offendere le vittime della Shoah e delle 
rappresaglie, che a differenza della violenza “titoista” erano dirette in modo 
indiscriminato contro comunità e “razze” intere e non contro avversari politici.


Quanti


“Altri furono uccisi dai partigiani di Tito, gettati nelle foibe o deportati 
nei campi sloveni e croati. Secondo alcune fonti le vittime furono tra le 
quattromila e le seimila, per altre diecimila: ex fascisti, collaborazionisti e 
repubblichini, ma anche partigiani che non accettavano l’invasione jugoslava e 
cittadini qualunque”.


Spesso nella quantificazione degli infoibati si generalizza considerando come 
tali anche i militari internati nei campi di prigionia. Per capire le esatte 
dinamiche di quel momento va invece fatta una distinzione tra le due categorie: 
i corpi recuperati nelle foibe ammontano a qualche centinaio. Il sottufficiale 
dei vigili del fuoco Arnaldo Harzarich, incaricato dei recuperi dalle autorità 
tedesche, scrisse: “è ormai assodato che in Istria nel ’43 le persone uccise 
nel corso della insurrezione successiva all’8 settembre sono fra le 250 e le 
500” (Rapporto Harzarich, conservato in copia presso l’Archivio dell’IRSMLT, n. 
346). Lo stesso ordine di grandezza è riportato da un articolo apparso il 19 
gennaio 1944 sul Corriere della Sera. Eccone l’occhiello: “I 471 caduti nelle 
foibe dell’Istria e della Dalmazia saranno rievocati il 30 gennaio da tutte le 
federazioni fasciste”.


Inoltre durante la guerra le foibe furono talvolta usate anche come sepoltura 
d’urgenza da parte dei partigiani per occultare i cadaveri dei compagni ed 
evitare in questo modo che il ritrovamento dei corpi sepolti potesse portare a 
delle rappresaglie sui loro parenti da parte dei nazifascisti.


La maggior parte delle vittime, invece, morì di malattia, stenti o fu 
giustiziata nei campi di prigionia jugoslavi. Si trattava in larga maggioranza 
di uomini che avevano militato in formazioni o gruppi paramilitari direttamente 
o indirettamente sottoposti ai tedeschi e dunque dichiarati prigionieri di 
guerra. Una situazione (anche questa) molto diffusa nell’Europa del primissimo 
dopoguerra, basti pensare che nei campi di prigionia americani “il numero 
totale dei morti fra i prigionieri tedeschi nelle mani degli Americani, 
qualunque sia la causa della loro morte, non ha potuto superare le 56.000 
unità” (Albert Cowdrey, del Servizio del Centro Storico Militare dell’Esercito, 
in S.E. Ambrose, Ike and the Disappearing Atrocities 
<http://www.nytimes.com/books/98/11/22/specials/ambrose-atrocities.html>, New 
York Times Books, 24 febbraio 1991).


Sommando gli infoibati e le vittime delle deportazioni, comunque, in tutta la 
Venezia Giulia le vittime provocate dall’esercito jugoslavo dopo la cacciata 
dei tedeschi variano dalle 4-5.000 (stime di Raoul Pupo) alle 2.000 (stime di 
Piero Purini). Raffrontando queste cifre con il numero delle vittime delle 
violenze di fine guerra in altre zone d’Italia (”Nella sola Emilia Romagna si 
ebbero 2.000 epurazioni, a Torino più di 1.000”: M. Dondi, La lunga 
liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, 
Roma 2000, pp. 97 e 224-225, cit. in L. Filipaz, Foibe o Esodo? “Frequently 
Asked Questions” per il Giorno del ricordo 
<http://www.wumingfoundation.com/giap/2015/02/foibe-o-esodo-frequently-asked-questions-per-il-giornodelricordo/>,
 apparso sul blog Giap l’8 febbraio 2015), si nota come il numero delle vittime 
non si discosti troppo da quello riscontrato altrove in Italia: il fenomeno si 
presenta dunque molto di più come una resa dei conti di fine guerra che come 
una violenza mirata contro gli italiani in quanto tali.


Se poi si considerano i numeri dei morti in altri luoghi (nella stessa Slovenia 
le vittime collaborazionisti dei nazifascisti furono quasi 14.000, mentre in 
altre zone della Jugoslavia Tito usò una mano ancor più pesante) non si può più 
affermare che la violenza contro gli italiani fu quantitativamente maggiore, ma 
è invece in linea con quella del contesto generale dell’epoca (non mancarono 
inoltre anche violenze targate “occidente”, quale la sanguinosa repressione dei 
comunisti greci da parte di inglesi e monarchici 
<https://www.theguardian.com/world/2014/nov/30/athens-1944-britains-dirty-secret>).


L’esodo


“Tra il maggio e il giugno del 1945 migliaia di italiani abitanti dell’Istria, 
di Fiume e della Dalmazia furono obbligati a lasciare la loro terra”.


Il regime jugoslavo fu senza dubbio responsabile di un atteggiamento ostile nei 
confronti di determinati gruppi sociali considerati avversi all’edificazione 
del socialismo (ex funzionari dello stato italiano, sacerdoti, possidenti, 
insegnanti, ecc.), nonché di misure poliziesche e coercitive nei confronti 
della popolazione (compresi i comunisti rimasti fedeli al Cominform dopo la 
rottura tra Tito e Stalin nel 1948). Inoltre molte delle misure di stampo 
socialista attuate in materia economica, quali l’esproprio dei latifondi, 
l’abolizione della mezzadria, la collettivizzazione, l’occupazione delle case 
sfitte, sconvolsero la società locale peggiorando la condizione di molti 
(soprattutto della borghesia). Per considerare obiettivamente il fenomeno 
dell’esodo, è necessario ricordare anche che l’Istria era comunque una delle 
regioni italiane più arretrate e inoltre stava entrando in un sistema 
socialista, mentre l’Italia era già considerata come un paese della sfera 
occidentale, nel quale ci sarebbe stato facile accesso agli aiuti americani. 
Pertanto tra coloro che se ne andarono ci fu anche chi partì sperando di 
migliorare la propria situazione economica in Italia.


Peraltro va ricordato come migliaia di italiani rimasero comunque in Istria, 
dove la minoranza italiana ebbe diritti e garanzie decisamente maggiori di 
quella slovena in Italia.


Non si possono inoltre tacere le responsabilità dello stato italiano e delle 
organizzazioni istriane finanziate dall’Italia stessa. “L’esodo di massa da 
Pola e Fiume fu un disastro per la Jugoslavia, sia sul piano economico che 
politico. Per contro i famigerati CLN ‘antislavi’ d’Istria e Fiume spinsero gli 
italiani ad andarsene in massa (tramite stampa e propaganda di strada), da un 
lato con lo specifico scopo di sabotare la Jugoslavia – una specie di sciopero 
di cittadinanza (un porto vuoto è un porto morto) –, dall’altro fu una tattica 
suicida per convincere la commissione alleata a riassegnare quelle terre 
all’Italia mostrando ad essi una sorta di ‘plebiscito di fatto’ a mezzo 
emigrazione di massa” (L. Filipaz, Foibe o Esodo? “Frequently Asked Questions” 
per il Giorno del ricordo, cit.). Possiamo quindi constatare che l’interesse a 
diffondere l’idea di un odio verso gli italiani in quanto tali fu utile tanto 
alla propaganda fascista del tempo, quanto a quella neoirredentista del 
dopoguerra.


Inoltre la Jugoslavia in più di un’occasione mostrò di non avere particolare 
interesse nella partenza degli italiani. Il prof. Raoul Pupo dice in 
un’intervista: “Tito voleva dimostrare agli Alleati, impegnati nella 
definizione dei nuovi confini post-bellici, la volontà ‘annessionista’ degli 
italiani e quindi diede istruzioni affinché fossero ‘invogliati a legarsi’ al 
regime e non a espatriare” (Intervista a R. Pupo a cura di V. Di Donato 
<http://www.wumingfoundation.com/giap/wp-content/uploads/2014/11/Pupo_9_febbraio_2006.pdf>,
 in Giornale di Brescia, 9 febbraio 2006).


A lungo termine la partenza degli italiani inoltre si rivelò una catastrofe per 
la Jugoslavia, perché l’Istria spopolata iniziò a rappresentare un problema 
economico per il resto del paese: per questo dopo il 1956 agli italiani fu 
sempre più difficile andarsene.


Conclusioni


“Dal 2005 la giornata del 10 febbraio è dedicata alla commemorazione delle 
foibe e del successivo esodo forzato della popolazione italiana”.


“Dal 2005 la giornata del 10 febbraio conserva e rinnova la memoria della 
tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle 
loro terre degli istriani, umani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più 
complessa vicenda del confine orientale” (legge 30 marzo 2004 n. 92).


A causa dell’invasione nazifascista in Jugoslavia morì un milione di persone su 
neppure 15 milioni di abitanti. Nella sola provincia di Lubiana 15.000 persone 
vennero fucilate dagli occupanti tedeschi e italiani. Nel lager italiano di 
Arbe/Rab morirono circa 1.500 internati su 10.000 (in massima parte donne, 
vecchi e bambini). Nel campo di concentramento della Risiera di San Sabba a 
Trieste i nazisti allestirono l’unico forno crematorio in Italia, nel quale 
vennero bruciati i corpi di 5.000 persone, civili e resistenti sloveni, croati, 
italiani ed ebrei.


Ci pare dunque doveroso ricordare come le vittime innocenti non siano state 
solo italiane. Denunciare gli aspetti repressivi del regime jugoslavo ha un 
senso, ben altro invece è mettere sullo stesso piano la violenza del movimento 
partigiano con quella ben più gratuita e massiccia dei nazifascisti, 
responsabili del tentativo di bonifica etnica durante il regime di Mussolini e 
della violenza durante il governatorato della Zona Operazioni del Litorale 
Adriatico, antecedenti e quindi alla base di quanto accadde successivamente.


Ogni 10 febbraio i mass media italiani non perdono l’occasione per raccontare 
una storia parziale e distorta del confine orientale, spesso basandosi su dati 
falsi o manipolati dalla propaganda neofascista. Il dibattito cui assistiamo 
ogni Giorno del ricordo sui mass media italiani appare pesantemente 
condizionato da omissioni e censure che possono essere lette come una spia del 
perdurare di un pericoloso vittimismo nazionalista all’interno della cultura e 
dell’informazione italiana.


Chiediamo dunque che per il prossimo 10 febbraio la rivista, coinvolgendo una 
pluralità di voci e firme, prepari sul sito uno speciale che dia conto della 
complessità del tema, in primis reinserendo nel quadro le responsabilità dello 
stato italiano sul confine orientale a partire dal 1915.


Nicoletta Bourbaki (gruppo di lavoro su revisionismo storico e false notizie 
storiche in rete)
Wu Ming (scrittori)
Kai Zen (scrittori)
Resistenze in Cirenaica (rete di collettivi, associazioni e gruppi di lavoro 
sul postcolonialismo italiano, Bologna)
Anpi Colle Val d’Elsa
Anpi Pavia centro “Onorina Pesce Brambilla”
Anpi Pavia Borgo Ticino “Giuseppe Pinelli”
Luca Bravi (storico)
Carlo Spartaco Capogreco (storico)
Anna Di Gianantonio (storica)
Eric Gobetti (storico)
Carlo Greppi (storico)
Piero Purini (storico)
Girolamo De Michele (scrittore)
Monica Di Barbora (insegnante)
Enrico Manera (insegnante e ricercatore)
Luca Manucci (ricercatore)
Benedetta Pierfederici (ricercatrice ed editor)
Alberto Prunetti (scrittore)




20 DICEMBRE 2016








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