Rivoluzione d’Ottobre

1) A. Catone: La Rivoluzione d’Ottobre e il Movimento Socialista Mondiale in 
una prospettiva storica
2) D. Losurdo: Rivoluzione d’Ottobre e democrazia


Per iniziative e documentazione nel Centenario della Rivoluzione d'Ottobre si 
veda la nostra pagina dedicata:
http://www.cnj.it/INIZIATIVE/1917.htm


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http://www.marx21.it/index.php/storia-teoria-e-scienza/marxismo/28464-la-rivoluzione-dottobre-e-il-movimento-socialista-mondiale-in-una-prospettiva-storica

La Rivoluzione d’Ottobre e il Movimento Socialista Mondiale in una prospettiva 
storica 
<http://www.marx21.it/index.php/storia-teoria-e-scienza/marxismo/28464-la-rivoluzione-dottobre-e-il-movimento-socialista-mondiale-in-una-prospettiva-storica>
di Andrea Catone
12 Ottobre 2017

1. Il risultato più duraturo della rivoluzione d’Ottobre è il riemergere dei 
popoli oppressi

Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre consente oggi, con il vantaggio della 
distanza storica, di trarre un bilancio dei suoi effetti duraturi in tutta la 
storia del mondo.

La rivoluzione d’Ottobre segna un momento fondamentale nella storia, non solo 
del movimento operaio, ma dell’intera umanità. Dopo la Comune di Parigi (1871), 
schiacciata nel sangue dalla repressione della borghesia, la Rivoluzione 
d’Ottobre è il primo tentativo vittorioso del proletariato e delle classi 
subalterne di rovesciare i rapporti sociali dominanti e costruire una società 
socialista. Segna anche l’inizio di un potente processo di emancipazione dei 
popoli oppressi e lo sviluppo di lotte anti-coloniali e antimperialiste. Le 
rivoluzioni russa, cinese, vietnamita e cubana – per limitarsi ad alcuni dei 
più importanti movimenti comunisti – hanno permesso la liberazione di centinaia 
di milioni di esseri umani dalla miseria e dalla fame e rappresentano il 
tentativo di costruire società alternative al capitalismo e orientate verso il 
socialismo. L’importanza di queste esperienze non si è esaurita nei paesi che 
sono stati teatro dei processi rivoluzionari; queste esperienze hanno dato 
nuovo impulso alla liberazione che ha coinvolto grandi masse in ogni continente.

Grazie all’Ottobre sulle bandiere del movimento dei lavoratori è scritto non 
solo “Lavoratori di tutti i paesi, unitevi!” Ma “Lavoratori di tutti i paesi e 
popoli oppressi, unitevi!” [1]. La Rivoluzione d’Ottobre, con la creazione 
della Terza Internazionale (Comintern), lega strettamente il proletariato 
occidentale e i popoli delle colonie e delle semicolonie in una lotta generale 
contro l’imperialismo. Grazie all’Ottobre, e al Komintern che da esso si 
sviluppa, sono nati nei paesi oppressi dall’imperialismo i partiti comunisti. 
Ottobre apre la strada alla rivoluzione cinese e alla riconquista della dignità 
nazionale del paese più popoloso del mondo.

Nella storia del capitalismo, come Marx ci ricorda nel capitolo 24 del I Libro 
del Capitale sulla cosiddetta accumulazione originaria, il contributo della 
ricchezza saccheggiata nelle colonie ha costituito una base per l’accumulazione 
del capitale. Il capitalismo è cresciuto insieme con il colonialismo moderno ed 
è diventato imperialismo. La rottura della catena imperialista avviata con la 
Rivoluzione di Ottobre è una svolta nella storia dello sviluppo capitalistico e 
non solo perché la Russia è stata considerata l’anello più debole della catena 
imperialista, ma perché ha aperto la strada alla lotta di liberazione dei 
popoli d’Oriente e di tutti i popoli oppressi.

La teoria leninista dell’imperialismo ha un enorme valore scientifico e 
strategico perché individua il legame necessario tra il movimento dei 
lavoratori in Occidente e le popolazioni colonizzate. Lenin pensa globalmente, 
come la Seconda Internazionale non aveva mai fatto. Con l’Ottobre nasce la 
strategia del fronte unito dei lavoratori dei paesi capitalistici e dei popoli 
oppressi. Pensare la rivoluzione a livello mondiale significa che il 
proletariato occidentale sostiene tutte le lotte che possono indebolire il 
fronte imperialista. Significa anche che ogni situazione nazionale deve essere 
posta e compresa in un contesto internazionale.

La presenza e il prestigio dell’URSS, vittoriosa sul nazifascismo, e del suo 
modello di sviluppo che ha costruito un forte paese industriale dotato di armi 
moderne più potenti di quelle della feroce Germania hitleriana, ha 
rappresentato, per tutta una fase del secondo dopoguerra, un forte incentivo e 
un modello per i paesi che intendevano sfuggire al giogo dell’imperialismo (i 
nazionalismi arabi emergono con un programma avanzato di forti interventi 
statali – Egitto, Siria Iraq, ma, più tardi, anche Libia) e movimenti di 
liberazione nazionale (Angola, Mozambico, America Centrale…).

È con la Rivoluzione d’Ottobre che il movimento dei lavoratori viene 
globalizzato. La I e II Internazionale sono fondamentalmente europee, il 
Comintern è mondiale.

Da una prospettiva a lungo termine, dopo la dissoluzione dell’URSS e il crollo 
dei regimi socialisti in Europa nel 1989-91, e il ritorno di questi paesi al 
sistema capitalistico, il risultato più duraturo della rivoluzione d’Ottobre è 
il riemergere dei popoli oppressi come protagonisti della scena mondiale (la 
Cina ne è il caso più emblematico).

2. Il crollo del 1989-1991: I partiti comunisti perdono il potere politico 
nell’URSS e nei paesi dell’Europa orientale

Nel 1989-91, dopo 70 anni in URSS e 40 anni nelle repubbliche popolari 
dell’Europa orientale e dei Balcani, i partiti comunisti hanno perso il potere 
politico, che ritorna alle mani dei capitalisti, i rapporti di proprietà 
borghesi vengono ripristinati e i paesi ex socialisti dell’Europa orientale 
sono integrati nella NATO e nella UE. Perché è successo questo? La questione 
rimane aperta su questo tema fondamentale. Numerosi forum internazionali sono 
stati tenuti dal 1991 e sono state pubblicati anche importanti lavori sulle 
cause del crollo delle democrazie popolari dell’Europa orientale e dell’URSS. 
Il sistema sovietico, che le democrazie popolari europee hanno più o meno 
imitato, è stato analizzato nei suoi vari aspetti: politici economici, sociali 
e culturali; nelle relazioni internazionali. A mio avviso, la causa principale 
sta nel deficit politico e ideologico che distrugge la leadership dell’URSS e 
porta a disastri. Un contributo molto importante in questo senso è stato dato 
dalla Conferenza di Pechino nel 2011 e dal libro che ne raccoglie gli atti, La 
storia giudicherà su questo, a cura di Li Shenming.

Il bilancio storico dell’Ottobre richiede anche un bilancio teorico, una 
ridefinizione critica delle categorie della rivoluzione.

3. La teoria della transizione al socialismo.

Lenin aveva chiarito che la transizione al socialismo è un processo dialettico 
che richiede un’intera epoca storica [2]. E dove non è stato deciso una volta 
per tutte chi vincerà. La storia del secolo che ci separa dall’ Ottobre 
conferma pienamente la concezione di Lenin e nega le teorie anti-dialettiche e 
ingenue che credono che il socialismo possa sostituire il capitalismo in pochi 
anni attraverso misure politiche e decreti. La transizione al socialismo 
richiede la transizione verso una nuova superiore civiltà. Una nuova civiltà 
non può essere creata in breve tempo, richiede un’intera epoca storica.

Perché Lenin insiste nei suoi ultimi scritti sul tema della creazione di una 
nuova civiltà? Che cos’è una civiltà? C’è una determinata civiltà quando un 
popolo ha acquisito determinati comportamenti come sua seconda natura e si è 
abituato a praticarli senza una coercizione esterna. Il socialismo richiede che 
le grandi masse di lavoratori e i gruppi subalterni (Gramsci) siano in grado di 
esercitare effettivamente il potere di direzione e di controllo sulla proprietà 
sociale ed essere in grado nei fatti di decidere cosa, in che misura e come 
produrre e distribuire il prodotto, essere in grado di pianificare la 
produzione.

Nel settembre-ottobre 1917 Lenin scrisse: “Possono i bolscevichi mantenere il 
potere statale?”, in cui, tra l’altro, pone la questione della capacità reale 
dei proletari, dei lavoratori non qualificati, di guidare lo Stato. Per 
l’immediato la risposta è: no. Un compito essenziale per il potere sovietico è 
quindi quello di costruire le condizioni perché anche una cuoca possa dirigere 
lo stato.

Anche Gramsci si pone chiaramente su questa scia: il socialismo deve rendere 
politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di 
ristretti gruppi intellettuali [Quaderni del carcere, Q11 §12, 1932]. Questo 
straordinario obiettivo non può essere raggiunto in condizioni di miseria e di 
basso sviluppo delle forze produttive.

I bolscevichi si trovano ad affrontare il duplice difficilissimo compito: 
superare l’arretratezza e allo stesso tempo costruire rapporti di produzione 
socialisti: una doppia transizione. Dovranno affrontare un compito totalmente 
nuovo nella storia dell’umanità, come la pianificazione e il calcolo economico 
in un’economia di transizione. I comunisti sovietici devono inventare e 
sperimentare una nuova economia, organizzare una nuova formazione economica e 
sociale. E devono farlo in condizioni estremamente difficili.

Lo stesso problema, in misura anche maggiore, avevano i comunisti in Cina dopo 
la conquista del potere politico nel 1949. La capacità di trovare un modo 
originale di sviluppo dopo la prima fase della costruzione economica e sociale 
(1949-1978) è stato il grande merito storico di Deng Xiaoping: quasi 40 anni 
dopo l’avvio del “socialismo con caratteristiche cinesi”, la RPC è diventata la 
seconda potenza economica mondiale (calcolando in base al PIL), sviluppando 
notevolmente le forze produttive.

Lo sviluppo delle forze produttive in una società di transizione verso il 
socialismo è tuttavia diverso da quello di una formazione economico-sociale 
capitalistica. La forza produttiva principale è l’essere umano. La transizione 
al socialismo richiede un essere umano con una conoscenza critica e una cultura 
politecnica – umanistica e tecnico-scientifica allo stesso tempo – e con uno 
stile di vita che non può essere la copia del modo di vivere americano, che 
tende a mantenere i subalterni nella condizione di consumatori subalterni, in 
uomini a una dimensione, come scrisse oltre 50 anni fa Herbert Marcuse.

Uno dei problemi più gravi che le società di transizione al socialismo si 
trovano ad affrontare – ognuna sulla base delle proprie caratteristiche 
nazionali – è quello di sviluppare le forze produttive, ma di governare questo 
sviluppo nella direzione della formazione di un nuovo tipo umano e di un nuovo 
legame sociale per una superiore forma di civiltà, la società socialista. Il 
fattore culturale non è meno importante di quello economico per avanzare verso 
la civiltà socialista.

4. Il tema della direzione politica del processo di transizione. La questione 
della democrazia socialista

La transizione verso una forma di democrazia superiore a quella del 
parlamentarismo borghese è riuscita solo in alcune situazioni e solo in parte 
nella storia di questo secolo. Dopo la morte di Lenin, la questione del gruppo 
dirigente e delle modalità e forme di selezione dei quadri non è stata 
affrontata in modo adeguato.

Il problema dei partiti comunisti al potere consiste nella ricerca di 
istituzioni e formule che possano garantire la transizione socialista. La 
transizione al socialismo non è un movimento spontaneo. Questa questione è 
stata teoricamente affrontata da Marx e sistemata da Lenin: la dittatura del 
proletariato, necessaria per garantire la transizione. Ma, allo stesso tempo, è 
necessario assicurare un meccanismo di selezione trasparente e democratico per 
i gruppi dirigenti, il legame stretto tra il partito e le masse, i governanti e 
i governati. Occorre sviluppare forme di democrazia partecipativa e crescita 
delle masse nella partecipazione alla direzione dello stato e dell’economia, un 
grande “progresso intellettuale di massa” (vedi Gramsci). La corretta selezione 
dei gruppi dirigenti è una delle questioni più delicate nella società di 
transizione.

Nella transizione al socialismo, il legame tra economia e politica deve 
necessariamente essere molto più stretto che nella società borghese, perché la 
transizione al socialismo non è un processo spontaneo, non avviene 
automaticamente, ma richiede una direzione politica chiara e forte. La 
transizione al socialismo richiede la creazione di una nuova cultura di massa, 
che non sia subalterna all’ideologia capitalista e imperialista: una 
rivoluzione culturale.

5. Le rivoluzioni socialiste vittoriose non si svolgono nei centri 
imperialisti, ma solo in periferia.

Il sistema capitalistico nelle sue sovrastrutture politiche e ideologiche si è 
rivelato più forte del proletariato dei Paesi occidentali. La rivoluzione in 
Occidente non si realizza, sia per la forza del capitale (si veda l’analisi di 
Gramsci sull’articolazione delle società borghesi occidentali e quella di 
Althusser sugli apparati ideologici di Stato), sia per la debolezza della 
strategia e dell’organizzazione del proletariato e dei partiti comunisti.

Di solito, si hanno situazioni rivoluzionarie in tempi di crisi acuta dello 
stato borghese. Dopo il 1918, nel primo dopoguerra europeo, nei paesi sconfitti 
degli imperi centrali (Ungheria, Baviera, Austria, Germania), le rivoluzioni 
sono rapidamente schiacciate nel sangue prima della presa del potere politico 
(Germania) o sopraffatte per l’incapacità di governare l’economia dei 
rivoluzionari (In Ungheria).

Dopo il 1945, nel II dopoguerra, la situazione sembra più favorevole grazie 
alla vittoria dell’URSS sul nazismo. Nei paesi dell’Europa centrale e 
orientale, i comunisti vanno al potere o come continuazione della resistenza 
antifascista nella rivoluzione socialista (Jugoslavia, Albania) o grazie a un 
consenso popolare fortemente sostenuto dalla presenza dell’armata rossa 
sovietica: Ungheria, Polonia, Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia, Germania 
orientale. Fatta eccezione per gli ultimi due, si tratta di paesi di 
capitalismo periferico.

Nei paesi chiave dell’Occidente, anche quando un forte movimento anti-nazista 
(Italia, Francia) è stato sviluppato dai comunisti o con una forte presenza di 
essi, la Resistenza non si trasforma in una rivoluzione e dove è tentata ,come 
in Grecia, è schiacciata nel sangue dall’intervento militare britannico e 
occidentale.

Dopo il 1945 in Europa occidentale non ci sono crisi rivoluzionarie, anche se 
in due paesi con un’importante presenza dei comunisti ci sono momenti di 
mobilitazione di massa e di crisi del potere borghese (maggio 1968 in Francia, 
decennio 1968-77 in Italia). La migliore opportunità rivoluzionaria è stata in 
Portogallo, la “Rivoluzione dei garofani” (1974), con un ruolo importante del 
Partito Comunista guidato da Alvaro Cunhal, ma anche qui la borghesia interna, 
con il sostegno dell’imperialismo occidentale e della NATO, è in grado di 
ristabilire il proprio potere politico ed economico. L’ultima occasione, in una 
situazione di forte crisi economica, è stata in Grecia (2011-2015), dove la 
coalizione di sinistra ottiene il consenso elettorale e va al governo, ma 
subito dopo rimane ostaggio della “troika” (BCE , IMF, UE) e si riduce ad 
essere l’esecutrice dei suoi diktat.

Negli Stati Uniti, il cuore dei paesi imperialisti, nessun movimento di lotta 
(la rivolta dei campus universitari o le pantere nere negli anni ‘60) ha mai 
seriamente messo in discussione il potere politico o l’egemonia culturale del 
grande capitale. In Inghilterra, attraversata anche da grandi lotte dei 
lavoratori (minatori) il potere borghese non è mai messo in discussione.

Nei cento anni che ci separano dall’Ottobre il movimento comunista e dei 
lavoratori non riesce nel suo obiettivo principale: avviare nei paesi 
capitalisti più sviluppati – con la conquista del potere politico – la 
trasformazione del modo di produzione capitalistico nel modo di produzione 
socialista basato sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione e sulla 
pianificazione socialista.

Quali sono le cause di questo fallimento storico?

La teoria dell’imperialismo di Lenin può spiegare alcune delle cause che 
ostacolano la rivoluzione in Occidente: la classe capitalistica, con le 
briciole della rapina imperialista, nutre “l’aristocrazia operaia” e corrompe i 
leader di sindacati e partiti operai, che introiettano le teorie revisioniste e 
negano la possibilità di uscire dall’orizzonte dei rapporti di produzione 
borghesi.

Inoltre, non dobbiamo dimenticare il ruolo mondiale dell’imperialismo, che non 
è solo la rapina dei popoli sottomessi, ma è anche organizzato come un cane da 
guardia del potere borghese nei paesi centrali del capitalismo. Dopo il 1945, 
gli USA e la NATO, la più grande alleanza militare del mondo sotto il comando 
statunitense, hanno svolto un ruolo decisivo nel contrastare il movimento 
progressista e di emancipazione anche nei paesi occidentali, utilizzando il 
colpo di Stato (Grecia 1967) o minacciandolo (Italia, anni 1960-70). Inoltre, 
l’imperialismo, con le sue istituzioni economiche e finanziarie mondiali (FMI, 
ecc.), controlla e riconquista i paesi che vogliono liberarsi dal sistema 
imperialista mondiale (l’ultimo caso evidente: la Grecia 2011-2015).

Ci sono stati e ci sono immensi errori strategici e tattici commessi dai 
partiti comunisti in Occidente, senza una seria comprensione dei quali nessun 
progresso del movimento operaio sarà possibile. Oggi va preso atto che il 
capitalismo e il potere politico borghese si sono dimostrati molto più forti 
del movimento dei lavoratori, nonostante due crisi strutturali generali del 
capitalismo (negli anni ‘30 del XX secolo e la crisi manifestatasi a partire 
dal 2007-2008).

La transizione al modo di produzione socialista non è avvenuta nei tempi e nei 
modi che abbiamo immaginato dopo la vittoria del 1917.

Questa domanda rimane aperta. L’indagine di questo fallimento storico è un 
compito fondamentale per il movimento operaio e per i suoi intellettuali 
organici.

Questo non significa che tutta l’attività e l’elaborazione strategica del 
movimento operaio nei paesi centrali del capitalismo siano stati inutili e 
inefficaci. In particolare, la “via Italiana al Socialismo”, la strategia 
sviluppata dal Partito Comunista Italiano dal 1944 sulla base dell’analisi di 
Gramsci nei Quaderni del carcere, al di là di deviazioni e riduzionismi, è di 
grande importanza per la possibile transizione al socialismo in Occidente.

Questa strategia si basava su una lunga “guerra di posizione” in cui i 
comunisti, al centro di un fronte popolare, di un blocco di forze sociali e 
politiche, gradualmente conquistano alcune “fortezze” delle istituzioni 
economiche e politiche capitalistiche, attuando riforme strutturali. Per il 
successo di questa strategia, tuttavia, il paese deve essere libero dal 
controllo militare ed economico dell’imperialismo, mentre attualmente tutti i 
paesi dell’Europa occidentale e gli ex paesi socialisti europei sono sotto il 
controllo militare della NATO e delle istituzioni economiche imperialiste 
internazionali.

L’esperienza storica di questo secolo che ci separa dal grande Ottobre russo ci 
insegna che ci sono possibilità concrete di avviare una transizione socialista 
solo se la catena imperialista è seriamente indebolita.

Oggi, la situazione mondiale è più favorevole al movimento dei lavoratori che 
negli anni 1990 e 2000. È gravida di grandi pericoli e minacce, ma è anche 
aperta alla possibilità di un rapporto di forze più favorevole 
all’emancipazione delle nazioni oppresse e dei popoli sfruttati. Oggi, in tutto 
il mondo, le cose stanno cambiando: lo strapotere dell’imperialismo 
statunitense, che negli ultimi 25 anni ha portato guerre di aggressione per 
mantenere la sua centralità unipolare, trova un freno e un limite nella ascesa 
economica della Cina, nell’organizzazione dei BRICS, nel programma di creare 
una valuta di scambio internazionale alternativa al dollaro, nelle proposte 
strategiche della Cina che è diventato un attore sul palcoscenico mondiale e 
offre al mondo un’alternativa strategica per uno sviluppo pacifico (si veda “la 
nuova via della seta).

Il contesto internazionale è sempre stato importante per il movimento dei 
lavoratori, non perché le rivoluzioni possono essere esportate (le rivoluzioni 
possono svilupparsi solo su una effettiva base nazionale e devono 
fondamentalmente basarsi sulle proprie forze in ciascun paese), ma perché la 
presenza di un blocco di forze in grado di contenere l’impero americano può 
limitare la sua aggressività e fornire un sostegno a quei paesi in cui si 
sviluppa un movimento per il recupero della sovranità nazionale e popolare.

In questa situazione in movimento si possono creare le condizioni per una 
rinascita della lotta per il socialismo in Occidente.

LEGGI LA VERSIONE IN PDF 
<http://www.marx21.it/documenti/catone_urssbilanciostorico.pdf>

NOTE

1 Si veda in proposito Cheng Enfu, Li Wei, “Il marxismo-leninismo è il metodo 
scientifico e la guida per conoscere e trasformare il mondo”, in Marx in Cina, 
quaderno speciale di MarxVentuno n. 2-3/2014. Si può anche leggere in rete in 
http://www.marx21books.com/MARX%20IN%20CINA/Il%20marxisismo%20leninismo%20di%20Cheng%20Enfu.pdf
 
<http://www.marx21books.com/MARX%20IN%20CINA/Il%20marxisismo%20leninismo%20di%20Cheng%20Enfu.pdf>.
 
<http://www.marx21books.com/MARX%20IN%20CINA/Il%20marxisismo%20leninismo%20di%20Cheng%20Enfu.pdf.>
2 Su questo, si veda anche la recentissima e fondamentale antologia di scritti 
di Lenin, curata da V. Giacché, con un’ampia prefazione dello stesso: Economia 
della rivoluzione, Il Saggiatore, Milano, 2017.


=== 2 ===

http://www.marx21.it/index.php/storia-teoria-e-scienza/marxismo/28308-rivoluzione-dottobre-e-democrazia
 
<http://www.marx21.it/index.php/storia-teoria-e-scienza/marxismo/28308-rivoluzione-dottobre-e-democrazia>

Rivoluzione d’Ottobre e democrazia 
<http://www.marx21.it/index.php/storia-teoria-e-scienza/marxismo/28308-rivoluzione-dottobre-e-democrazia>

di Domenico Losurdo

Il testo è la rielaborazione nella forma della Conferenza pronunciata a Napoli, 
presso la libreria Feltrinelli, il 6 luglio 2007, nell’ambito del ciclo «I 
venerdì della politica» promosso dalla Società di studi politici.

Ho sviluppato i temi qui accennati in tre libri ai quali rinvio per gli 
approfondimenti e i riferimenti bibliografici: Controstoria del liberalismo 
(Laterza, 2005); Il linguaggio dell’Impero (Laterza, 2007), Stalin. Storia e 
critica di una leggenda nera (Carocci, 2008) (D.L)

L’ideologia e la storiografia oggi dominanti sembrano voler compendiare il 
bilancio di un secolo drammatico in una storiella edificante, che può essere 
così sintetizzata: agli inizi del Novecento, una ragazza fascinosa e virtuosa 
(la signorina Democrazia) viene aggredita prima da un bruto (il signor 
Comunismo) e poi da un altro (il signor Nazi-fascismo); approfittando anche dei 
contrasti tra i due e attraverso complesse vicende, la ragazza riesce alfine a 
liberarsi dalla terribile minaccia;
divenuta nel frattempo più matura, ma senza nulla perdere del suo fascino, la 
signorina Democrazia può alfine coronare il suo sogno d’amore mediante il 
matrimonio col signor Capitalismo; circondata dal rispetto e dall’ammirazione 
generali, la coppia felice e inseparabile ama condurre la sua vita in primo 
luogo tra Washington e New York, tra la Casa Bianca e Wall Street. Stando così 
le cose, non è più lecito alcun dubbio: il comunismo è il nemico implacabile 
della democrazia, la quale ha potuto consolidarsi e svilupparsi solo dopo 
averlo sconfitto.

1. La democrazia quale superamento delle tre grandi discriminazioni

Sennonché, questa storiella edificante nulla ha a che fare con la storia reale. 
La democrazia, così come oggi la intendiamo, presuppone il suffragio 
universale: indipendentemente dal sesso (o genere), dal censo e dalla «razza», 
ogni individuo dev’essere riconosciuto quale titolare dei diritti politici, del 
diritto elettorale attivo e passivo, del diritto di votare per i propri 
rappresentanti e di essere eventualmente eletto negli organismi 
rappresentativi. E cioè, ai giorni nostri la democrazia, persino nel suo 
significato più elementare e immediato, implica il superamento delle tre grandi 
discriminazioni (sessuale o di genere, censitaria e razziale) che erano ancora 
vive e vitali alla vigilia dell’ottobre 1917 e che sono state superate solo col 
contributo, talvolta decisivo, del movimento politico scaturito dalla 
rivoluzione bolscevica.

Cominciamo con la clausola d’esclusione, macroscopica, che negava il godimento 
dei diritti politici alla metà del genere umano e cioè alle donne. In 
Inghilterra, le signore Pankhurst (madre e figlia), che promuovevano la lotta 
contro tale discriminazione e dirigevano il movimento femminista delle 
suffragette, erano costrette a visitare periodicamente le patrie prigioni. La 
situazione non era molto diversa negli altri grandi paesi dell’Occidente. Era 
Lenin invece, in Stato e rivoluzione, a denunciare l'«esclusione delle donne» 
dai diritti politici come una conferma clamorosa del carattere mistificatorio 
della «democrazia capitalistica». Tale discriminazione veniva cancellata in 
Russia già dopo la rivoluzione di febbraio, da Gramsci salutata come 
«rivoluzione proletaria» per il ruolo di protagonista svolto dalle masse 
popolari, com’era confermato dal fatto che la rivoluzione aveva introdotto «il 
suffragio universale, estendendolo anche alle donne». La medesima strada era 
poi imboccata dalla repubblica di Weimar, scaturita dalla «rivoluzione di 
novembre», scoppiata in Germania a un anno di distanza dalla rivoluzione 
d’ottobre e sull’onda e a imitazione di quest’ultima. Successivamente, in 
questa direzione si muovevano anche gli USA. In Italia e in Francia, invece, le 
donne conquistavano i diritti politici solo dopo la seconda guerra mondiale, 
sull’onda della Resistenza antifascista, alla quale i comunisti avevano 
contribuito in modo essenziale o decisivo.

Considerazioni analoghe si possono fare a proposito della seconda grande 
discriminazione, che ha anch’essa caratterizzato a lungo la tradizione 
liberale: mi riferisco alla discriminazione censitaria, che escludeva dai 
diritti politici attivi e passivi i non proprietari, i non abbienti, le masse 
popolari. Già efficacemente combattuta dal movimento socialista e operaio, pur 
fortemente indebolita, essa continuava a resistere pervicacemente alla vigilia 
della rivoluzione d’ottobre. Nel saggio sull’imperialismo e in Stato e 
rivoluzione Lenin richiamava l’attenzione sulle persistenti discriminazioni 
censitarie, camuffate mediante i requisiti di residenza o altri «"piccoli" (i 
pretesi piccoli) particolari della legislazione elettorale», che in paesi come 
la Gran Bretagna comportavano l'esclusione dai diritti politici dello «strato 
inferiore propriamente proletario». Si può aggiungere che proprio nel paese 
classico della tradizione liberale ha tardato in modo particolare ad affermarsi 
pienamente il principio «una testa, un voto». Solo nel 1948 sono dileguate le 
ultime tracce del «voto plurale», a suo tempo teorizzato e celebrato da John 
Stuart Mill: i membri delle classi superiori considerati più intelligenti e più 
meritevoli godevano del diritto di esprimere più di un voto, ciò che faceva 
rientrare dalla finestra la discriminazione censitaria cacciata dalla porta.

Per quanto riguarda l’Italia, sui manuali scolastici si può leggere che la 
discriminazione censitaria è stata cancellata nel 1912. In realtà continuavano 
a sussistere le «piccole» clausole di esclusione denunciate da Lenin. Ma non è 
questo il punto più importante. La legge varata in quell’anno concedeva 
graziosamente i diritti politici solo a quei cittadini di sesso maschile che, 
pur di modeste condizioni sociali, si fossero distinti o per «titoli di cultura 
e di onore» o per il valore militare mostrato nel corso della guerra contro la 
Libia terminata poco prima. In altre parole, non si trattava del riconoscimento 
di un diritto universale, bensì di una ricompensa in primo luogo per quanti 
avevano dato prova di coraggio e di ardore bellico nel corso di una conquista 
coloniale dai tratti brutali e talvolta genocidi.

In ogni caso, anche là dove il suffragio (maschile) era divenuto universale o 
pressoché universale, esso non valeva per la Camera Alta, che continuava a 
essere appannaggio della nobiltà e delle classi superiori. Nel Senato italiano 
vi sedevano, in qualità di membri di diritto, i principi di Casa Savoia: tutti 
gli altri erano nominati a vita dal re, su segnalazione del presidente del 
Consiglio. Non dissimile era la composizione delle altre Camere Alte europee 
che, a eccezione di quella francese, non erano elettive bensì caratterizzate da 
un intreccio di ereditarietà e nomina regia. Persino per quanto riguarda il 
Senato della Terza Repubblica francese, che pure aveva alle spalle una serie 
ininterrotta di sconvolgimenti rivoluzionari culminati nella Comune, è da 
notare che esso risultava da un'elezione indiretta ed era costituito in modo 
tale da garantire una marcata sovra-rappresentanza alla campagna (e alla 
conservazione politico-sociale), a danno ovviamente di Parigi e delle maggiori 
città, a danno cioè dei centri urbani considerati il focolaio della 
rivoluzione. Anche in Gran Bretagna, nonostante la secolare tradizione liberale 
alle spalle, la Camera Alta (interamente ereditaria, eccettuati pochi vescovi e 
giudici), non aveva nulla di democratico, e netto era il controllo esercitato 
dall’aristocrazia sulla sfera pubblica: era una situazione non molto diversa da 
quella che caratterizzava Germania e Austria. È per questo che un illustre 
storico (Arno J. Mayer) ha parlato di persistenza dell’antico regime in Europa 
sino al primo conflitto mondiale (e alla rivoluzione d’ottobre e alle 
rivoluzioni e agli sconvolgimenti che hanno fatto seguito a essa)

In quegli anni neppure negli USA erano assenti i residui di discriminazione 
censitaria. Rispetto all’Europa, però, l’antico regime si presentava in una 
versione diversa: l’aristocrazia di classe si configurava come aristocrazia di 
razza. Nel Sud del paese il potere era nelle mani degli ex-proprietari di 
schiavi, che nulla avevano perso della loro arroganza razziale o razzista e che 
non a caso erano bollati dai loro avversari quali Borboni; non era certo 
dileguato il regime talvolta celebrato dai suoi sostenitori e talaltra 
criticamente analizzato dagli studiosi contemporanei come una sorta di 
ordinamento castale, in quanto fondato su raggruppamenti etnico-sociali resi 
impermeabili dal divieto di miscegenation, e cioè dal divieto di rapporti 
sessuali e matrimoniali inter-razziali, severamente condannati e puniti in 
quanto suscettibili di mettere in discussione la white supremacy.

2. La duplice dimensione della discriminazione razziale

E veniamo così alla terza grande discriminazione, quella razziale. Prima della 
Rivoluzione d’Ottobre essa era più viva che mai e manifestava la sua vitalità 
in due modi. A livello globale il mondo era caratterizzato dal dominio 
incontrastato, per dirla con Lenin, di «poche nazioni elette» ovvero di un 
pugno di «nazioni modello» che attribuivano a se stesse «il privilegio 
esclusivo di formazione dello Stato», negandolo alla stragrande maggioranza 
dell’umanità, ai popoli estranei al mondo occidentale e bianco e pertanto 
indegni di costituirsi quali Stati nazionali indipendenti. E dunque, le «razze 
inferiori» erano escluse in blocco dal godimento dei diritti politici già per 
il fatto di essere considerate incapaci di autogoverno, incapaci di intendere e 
di volere sul piano politico. Tale esclusione era ribadita a un secondo 
livello, a livello nazionale: nell’Unione sudafricana e negli USA (il paese sul 
quale soprattutto ci soffermeremo), i popoli di origine coloniale erano 
ferocemente oppressi: essi non godevano né dei diritti politici né di quelli 
civili.

Si pensi ad esempio ai linciaggi che, tra Otto e Novecento, negli Stati Uniti 
erano riservati in particolare ai neri. Un illustre storico statunitense (Vann 
Woodward) ne ha dato una descrizione secca ma tanto più efficace e 
raccapricciante:

«Notizie dei linciaggi erano pubblicate sui fogli locali e carrozze 
supplementari erano aggiunte ai treni per spettatori, talvolta migliaia, 
provenienti da località a chilometri di distanza. Per assistere al linciaggio, 
i bambini delle scuole potevano avere un giorno libero.

Lo spettacolo poteva includere la castrazione, lo scoiamento, l'arrostimento, 
l'impiccagione, i colpi d'arma da fuoco. I souvenir per acquirenti potevano 
includere le dita delle mani e dei piedi, i denti, le ossa e persino i genitali 
della vittima, così come cartoline illustrate dell'evento».

Vediamo qui all’opera non la democrazia propriamente detta di cui favoleggia la 
storiella edificante di cui ho parlato agli inizi, bensì quella che eminenti 
studiosi statunitensi hanno definito la Herrenvolk democracy, una democrazia 
riservata esclusivamente al popolo dei signori, il quale esercitava una 
terroristica white supremacy non solo sui popoli di origine coloniale 
(afroamericani, asiatici ecc.) ma talvolta anche sugli immigrati provenienti da 
paesi (quali l’Italia) considerati di dubbia purezza razziale.

Ancora negli anni ’30 i neri, che pure nel corso della prima guerra mondiale 
erano stati chiamati a combattere e a morire per la «difesa» del paese, 
continuavano a subire un regime di terrore che al tempo stesso funzionava come 
una ripugnante società dello spettacolo. Eloquenti sono di per sé i titoli e le 
cronache dei giornali locali del tempo. Li riprendiamo dall’antologia (100 
Years of Lynchings) curata da uno studioso afroamericano (Ralph Ginzburg): 
«Grandi preparativi per il linciaggio di questa sera». Nessun particolare 
doveva essere trascurato: «Si teme che colpi d’arma da fuoco diretti al negro 
possano andare fuori bersaglio e colpire spettatori innocenti, che includono 
donne con i loro bambini in braccio»; ma se tutti si atterranno alle regole, 
«nessuno sarà deluso». L’inedita società dello spettacolo procedeva in modo 
implacabile. Vediamo altri titoli: «il linciaggio eseguito pressoché come 
previsto nell’annuncio pubblicitario»; «la folla applaude e ride per l’orribile 
morte di un negro»; «cuore e genitali recisi dal cadavere di un negro».

A subire il linciaggio non erano solo i neri colpevoli di «stupro» ovvero, il 
più delle volte, di rapporti sessuali consensuali con una donna bianca. Bastava 
molto meno per essere condannati a morte: l’«Atlanta Constitution» dell’11 
luglio 1934 informava dell’avvenuta esecuzione di un nero di 25 anni «accusato 
di aver scritto una lettera “indecente e insultante” a una giovane ragazza 
bianca della contea di Hinds»; in questo caso la «folla di cittadini armati» si 
era accontentata di riempire di pallottole il corpo dello sciagurato. Per di 
più, oltre che sui «colpevoli», la morte, inflitta in modo più o meno sadico, 
incombeva anche sui sospetti. Continuiamo a sfogliare i giornali dell’epoca e a 
leggere i titoli: «Assolto dalla giuria, poi linciato»; «Sospetto impiccato a 
una quercia sulla pubblica piazza di Bastrop»; «Linciato l’uomo sbagliato». 
Infine la violenza non si limitava a prendere di mira il responsabile o il 
sospetto responsabile del misfatto a lui attribuito: accadeva che, prima di 
procedere al suo linciaggio, venisse data alle fiamme e bruciata completamente 
la capanna in cui abitava la sua famiglia.

È da aggiungere che la terza grande discriminazione finiva col colpire anche 
certi membri e certi settori della stessa casta o razza privilegiata. 
Sfogliando sempre l’antologia relativa ai cento anni di linciaggi negli USA, ci 
imbattiamo nel titolo di un articolo del «Galveston (Texas) Tribune» del 21 
giugno 1934: «Una ragazza bianca è rinchiusa in carcere, il suo amico negro è 
linciato». Su quella ragazza bianca il regime di terroristica white supremacy 
si abbatteva in modo duplice: sia privandola della sua libertà personale, sia 
colpendola pesantemente nei suoi affetti.

3. Movimento comunista e lotta contro la discriminazione razziale

In che direzione, a quale movimento e a quale paese guardavano le vittime di 
tale orrore, per cercare solidarietà e ispirazione nella lotta di resistenza e 
di emancipazione? Non è difficile indovinarlo. Subito dopo la rivoluzione 
d’ottobre, gli afroamericani che aspiravano a scuotersi di dosso il giogo della 
white supremacy erano spesso accusati di bolscevismo, ma pronta era la replica 
di un militante nero che non si lasciava intimidire: «Se lottare per i nostri 
diritti significa essere bolscevichi, ebbene io sono bolscevico e che gli altri 
si rassegnino una volta per sempre».

Sono gli anni in cui i neri che diventavano militanti del Partito comunista 
degli USA o che visitavano la Russia sovietica facevano un’esperienza inedita e 
esaltante: si vedevano finalmente riconosciuti nella loro dignità umana; su un 
piano di parità con i loro compagni potevano partecipare alla progettazione di 
un mondo nuovo. Si comprende allora che essi guardassero a Stalin come al 
«nuovo Lincoln», al Lincoln che avrebbe messo fine questa volta in modo 
concreto e definitivo alla schiavitù dei neri, all’oppressione, alla 
degradazione, all’umiliazione, alla violenza e ai linciaggi che essi 
continuavano a subire. Non c’è da stupirsi per questa visione. Si tenga 
presente che per lungo tempo, nel periodo in cui la discriminazione razziale e 
il regime di supremazia bianca infuriavano pressoché indisturbati all’interno 
degli USA e a livello mondiale nel rapporto tra metropoli capitalistica e 
colonie, il termine «razzismo» ha avuto una connotazione positiva, quale 
sinonimo di comprensione sobria e scientifica della storia e della politica, 
una comprensione scientifica che solo gli ingenui (per lo più socialisti o 
comunisti) si ostinavano a ignorare o a mettere in discussione.

Quando interveniva il momento di svolta nella storia degli afroamericani? Nel 
dicembre 1952 il ministro statunitense della giustizia inviava alla Corte 
Suprema, che era stata chiamata a discutere la questione dell’integrazione 
nelle scuole pubbliche, una lettera eloquente: «La discriminazione razziale 
porta acqua alla propaganda comunista e suscita dubbi anche tra le nazioni 
amiche sull’intensità della nostra devozione alla fede democratica». Già per 
ragioni di politica estera occorreva sancire l’incostituzionalità della 
segregazione e della discriminazione anti-nera. Washington – osserva lo storico 
statunitense (Vann Woodward) che ricostruisce tale vicenda – correva il 
pericolo di alienarsi le «razze di colore» non solo in Oriente e nel Terzo 
Mondo ma nel cuore stesso degli Stati Uniti: anche qui la propaganda comunista 
riscuoteva un considerevole successo nel suo tentativo di guadagnare i neri 
alla «causa rivoluzionaria», facendo crollare in loro la «fede nelle 
istituzioni americane». In altre parole, non si poteva arginare la sovversione 
comunista senza mettere fine al regime di white supremacy. E dunque: la lotta 
ingaggiata dal movimento comunista e la paura del comunismo finivano con lo 
svolgere un ruolo essenziale nella cancellazione negli USA (e poi nel 
Sudafrica) della discriminazione razziale e nella promozione della democrazia.

A questo punto s’impone una riflessione. Le opzioni politiche di ciascuno di 
noi possono essere le più diverse. E, tuttavia, chi voglia fondare le sue 
affermazioni su una sia pur elementare ricostruzione storica, deve riconoscere 
un punto essenziale: la storiella edificante dalla quale abbiamo preso le 
mosse, e che continua a essere strombazzata dall’ideologia dominante, è per 
l’appunto una storiella. Se per democrazia intendiamo quantomeno l’esercizio 
del suffragio universale e il superamento delle tre grandi discriminazioni, è 
chiaro che essa non può essere considerata anteriore alla Rivoluzione d’Ottobre 
e non può essere pensata senza l’influenza che quest’ultima ha esercitato a 
livello mondiale.

4. La discriminazione razziale tra USA e Terzo Reich

Se da un lato spingeva le sue vittime a riporre le loro speranze nel movimento 
comunista e nell’Unione Sovietica, dall’altro il regime di white supremacy 
vigente negli USA e a livello mondiale suscitava l’ammirazione del movimento 
nazista. Nel 1930, Alfred Rosenberg, che poi sarebbe diventato il teorico più o 
meno ufficiale del Terzo Reich, celebrava gli Stati Uniti, con lo sguardo 
rivolto soprattutto al Sud, come uno «splendido paese del futuro» che aveva 
avuto il merito di formulare la felice «nuova idea di uno Stato razziale», idea 
che si trattava allora di mettere in pratica, «con forza giovanile», senza 
fermarsi a mezza strada. La repubblica nord-americana aveva coraggiosamente 
richiamato l’attenzione sulla «questione negra» e anzi l’aveva collocata «al 
vertice di tutte le questioni decisive». Ebbene, una volta cancellato per i 
neri, l’assurdo principio dell’uguaglianza doveva essere liquidato sino in 
fondo: occorreva trarre «le necessarie conseguenze anche per i gialli e gli 
ebrei».

Non c’è dubbio, il regime di white supremacy ha profondamente ispirato il 
nazismo e il Terzo Reich. È un’influenza che ha lasciato tracce profonde anche 
sul piano categoriale e linguistico. Proviamo a interrogarci sul termine-chiave 
suscettibile di esprimere in modo chiaro e concentrato la carica di 
de-umanizzazione e di violenza genocida insita nell’ideologia nazista. In 
questo caso non c’è bisogno di ricerche particolarmente tormentose: è 
Untermensch il termine-chiave, che in anticipo priva di qualsiasi dignità umana 
quanti sono destinati a essere schiavizzati al servizio della razza dei signori 
o a essere annientati quali agenti patogeni, colpevoli di fomentare la rivolta 
contro la razza dei signori e contro la civiltà in quanto tale. Ebbene, il 
termine Untermensch, che un ruolo così centrale e così nefasto svolge nella 
teoria e nella pratica del Terzo Reich, non è altro che la traduzione 
dall’americano Under Man! Lo riconosce Rosenberg, il quale esprime la sua 
ammirazione per l’autore statunitense Lothrop Stoddard: a lui spetta il merito 
di aver per primo coniato il termine in questione, che campeggia come 
sottotitolo (The Menace of the Under Man) di un libro pubblicato a New York nel 
1922 e della sua versione tedesca (Die Drohung des Untermenschen) apparsa tre 
anni dopo. Per quanto riguarda il suo significato, Stoddard chiarisce che esso 
sta a indicare la massa di «selvaggi e barbari», «essenzialmente incapaci di 
civiltà e suoi nemici incorreggibili», con i quali bisogna procedere a una 
radicale resa dei conti, se si vuole sventare il pericolo che incombe di crollo 
della civiltà. Elogiato, prima ancora che da Rosenberg, già da due presidenti 
statunitensi (Harding e Hoover), Stoddard è successivamente ricevuto con tutti 
gli onori a Berlino, dove incontra non solo gli esponenti più illustri 
dell’eugenetica nazista, ma anche i più alti gerarchi del regime, compreso 
Adolf Hitler, ormai lanciato nella sua campagna di decimazione e 
schiavizzazione degli «indigeni» ovvero degli Untermenschen dell’Europa 
orientale, e impegnato nei preparativi per l’annientamento degli Untermenschen 
ebraici, considerati i folli ispiratori della rivoluzione bolscevica e della 
rivolta degli schiavi e dei popoli delle colonie.

Ben lungi dal poter essere assimilate l’una all’altra quali nemiche mortali 
della democrazia, Unione Sovietica e Germania hitleriana si sono storicamente 
collocate su posizioni contrapposte: la prima ha svolto un ruolo d’avanguardia 
nella lotta contro la terza grande discriminazione (quella razziale), mentre la 
seconda si è distinta nella lotta per radicalizzare ed eternizzare la terza 
grande discriminazione e, nel far ciò, si è richiamata all’esempio costituito 
dagli USA. Nel complesso, l’analisi storica costringe a riconoscere il 
contributo essenziale o decisivo fornito dal movimento scaturito dalla 
rivoluzione d’ottobre al superamento delle tre grandi discriminazioni e dunque 
alla realizzazione di un presupposto ineludibile della democrazia.

5. Un incompiuto processo di democratizzazione

Conviene ora porsi un’ultima domanda: le tre grandi discriminazioni sono oggi 
del tutto dileguate? Già diversi anni fa, un eminente storico statunitense, 
Arthur Schlesinger Jr, che è stato anche consigliere del presidente John 
Kennedy, tracciava un quadro ben poco lusinghiero della democrazia nel suo 
paese: «L'azione politica, una volta imperniata sull'attivismo, s’impernia ora 
sulla disponibilità finanziaria». Dati i «costi spaventosamente alti delle 
recenti campagne elettorali», si delineava nettamente la tendenza a «limitare 
l’accesso alla politica a quei candidati che hanno fortune personali o che 
ricevono denaro da comitati d’azione politica», ovvero da «gruppi di interessi» 
e lobbies varie. In altre parole, era come se la discriminazione censitaria, 
cacciata dalla porta, fosse rientrata dalla finestra. Conviene prenderne atto: 
la campagna neoliberista contro i «diritti sociali ed economici», solennemente 
proclamati e sanciti dall'ONU nel 1948 ma denunciati da Friedrich August von 
Hayek quali espressione dell'influenza (da lui considerata rovinosa) della 
«rivoluzione marxista russa», ha finito con l‘investire anche i diritti 
politici.

Nell’atto di accusa contro la Rivoluzione d’Ottobre formulato dal patriarca del 
neoliberismo (e premio Nobel per l’Economia nel 1974) si può e si deve leggere 
un grande riconoscimento. Quella rivoluzione ha contribuito alla realizzazione 
dei diritti economici e sociali e all’edificazione anche in Occidente; non a 
caso, ai giorni nostri, al venire meno della sfida del movimento comunista 
corrisponde lo smantellamento dello Stato sociale nella stessa Europa, con il 
risultato che la discriminazione censitaria finisce col ripresentarsi in forme 
nuove.

E per quanto riguarda le altre due grandi discriminazioni? Non c’è tempo per 
un’analisi approfondita, ma non posso fare a meno di una breve osservazione a 
proposito della terza grande discriminazione. Certo, la storia non è l’eterno 
ritorno dell’identico, come pretendeva Nietzsche. Sarebbe errato e fuorviante 
ignorare i mutamenti intervenuti e i risultati conseguiti dalla lotta di 
emancipazione. Ai giorni nostri nessuno oserebbe fare professione di razzismo e 
proclamare ad alta voce la necessità di difendere o ristabilire la white 
supremacy. Non bisogna però dimenticare che, storicamente, un aspetto 
essenziale della terza grande discriminazione è stato la gerarchizzazione dei 
popoli e delle nazioni. L’ha ben compreso Lenin che abbiamo visto definire 
l’imperialismo come la pretesa di «poche nazioni elette» ovvero di poche 
«nazioni modello» di riservare esclusivamente a se stesse il diritto di 
costituirsi in Stato nazionale indipendente. È stata abbandonata una volta per 
sempre tale pretesa? In occasione di gravi conflitti politici e diplomatici, 
l’Occidente e in particolare il suo paese-guida si rivolgono al Consiglio di 
Sicurezza dell’ONU perché autorizzi l’intervento militare da loro auspicato o 
programmato, ma al tempo stesso dichiarano che, anche in assenza di 
autorizzazione, essi si riservano il diritto di scatenare sovranamente la 
guerra contro questo o quel paese. E’ evidente che, arrogandosi il diritto di 
dichiarare superata la sovranità di altri Stati, i paesi occidentali si 
attribuiscono una sovranità dilatata e imperiale, da esercitare ben al di là 
del proprio territorio nazionale, mentre per i paesi da loro presi di mira il 
principio della sovranità statale è dichiarato superato e privo di valore. In 
forme nuove si riproduce la dicotomia (nazioni elette e realmente fornite di 
sovranità/popoli indegni di costituirsi in Stato nazionale autonomo) che è 
propria dell’imperialismo e del colonialismo. Con la forza delle armi continua 
a esser fatto valere il principio della gerarchizzazione dei popoli e delle 
nazioni.

Nel caso degli USA questa sedicente gerarchia è proclamata ad alta voce e viene 
persino religiosamente trasfigurata. Nel settembre del 2000, nel condurre la 
campagna elettorale che l’avrebbe portato alla presidenza, George W. Bush 
enunciava un vero e proprio dogma: «La nostra nazione è eletta da Dio e ha il 
mandato della storia per essere un modello per il mondo». È un dogma ben 
radicato nella tradizione politica statunitense. Bill Clinton aveva inaugurato 
il suo primo mandato presidenziale, con una proclamazione ancora più enfatica 
del primato degli USA e del diritto-dovere a dirigere il mondo: «La nostra 
missione è senza tempo»!

Si direbbe che alla white supremacy sia subentrata la western supremacy ovvero 
l’American supremacy. Resta fermo il principio della gerarchizzazione dei 
popoli e delle nazioni, una gerarchizzazione naturale, eterna e persino 
consacrata dalla volontà divina, come nella monarchia assoluta dell’Antico 
regime! Almeno per quanto riguarda la sua dimensione internazionale, la terza 
grande discriminazione non è dileguata. Detto altrimenti: almeno per quanto 
riguarda i rapporti internazionali, siamo ben lontani dalla democrazia. Il 
processo di democratizzazione iniziato con la rivoluzione d’ottobre è ancora 
ben lungi dalla sua conclusione.

Testo pubblicato dalla Casa editrice «La Scuola di Pitagora», Napoli. 
Ringraziamo Domenico Losurdo, Presidente dell'Associazione Marx XXI, per la 
richiesta di pubblicazione nel nostro sito.

LEGGI IN FORMATO PDF 
<http://www.marx21.it/documenti/losurdo_Rivoluzioneottobredemocrazia.pdf>: 
http://www.marx21.it/documenti/losurdo_Rivoluzioneottobredemocrazia.pdf


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