http://contropiano.org/news/internazionale-news/2019/10/18/majdan-vista-dal-donbass-0119808
 
http://contropiano.org/news/internazionale-news/2019/10/18/majdan-vista-dal-donbass-0119808
 

 Majdan vista dal Donbass 

di Andrej Kočetov * http://contropiano.org/author/redazione-contropiano, 18 
Ottobre 2019
 

 
 Molti compagni, molti amici del Donbass, conoscono da anni Andrej Vladimirovič 
Kočetov, Presidente del Sindacato delle piccole imprese innovative della 
Repubblica Popolare di Lugansk. Andrej Kočetov partecipa spesso a conferenze 
internazionali, non solo di carattere sindacale, per dar voce al Donbass, 
ignorato dall’informazione ufficiale. E’ stato a più riprese anche in Italia, 
per parlare della situazione delle Repubbliche Popolari, aggredite dalle forze 
armate ucraine e dai reparti neonazisti al loro seguito, che terrorizzano la 
popolazione civile, distruggono case, scuole, asili, ospedali, in una guerra 
che dura ormai da oltre cinque anni e che ha provocato, secondo le cifre 
ufficiali, oltre tredicimila vittime, soprattutto civili.
 Andrej Kočetov accompagna spesso le delegazioni straniere che arrivano in 
Donbass per portare la solidarietà, anche materiale, di coloro che vedono nella 
resistenza delle Repubbliche popolari all’aggressione nazista un insegnamento e 
uno stimolo nella lotta quotidiana contro l’oppressione di classe. 
Un’oppressione che non esita a ricorrere alla violenza fascista e nazista, ogni 
qualvolta e in qualsiasi parte del mondo lo impongano gli interessi del 
capitale.
 Per molti lettori, alcuni paragrafi dell’articolo non appariranno certamente 
nuovi; ma, nel suo insieme, l’intervento di Andrej costituisce la testimonianza 
umana di un compagno che, da anni, è testimone della costante involuzione 
dell’Ucraina «indipendente», dal 1991 fino ai giorni della reazione più nera. 
Il caso dell’Ucraina, e, in generale, di alcune delle ex Repubbliche 
sovietiche, descritto da Andrej Kočetov, aiuta a comprendere le origini del 
cosiddetto «majdan» e della sua successiva spirale di guerra. Come dice lo 
stesso Andrej: «La storia dell’articolo è questa: moltissimi amici occidentali 
pongono spesso la domanda sul perché e come si sia giunti al majdan a Kiev. 
Così, ho deciso di condividere le informazioni al riguardo».
 Una sola notazione generale. Come naturale, nel testo ricorre spesso la parola 
majdan. L’espressione «majdan» è ormai divenuta sinonimo della situazione 
creatasi in Ucraina immediatamente prima e dopo il golpe neonazista del 
febbraio 2014; viene quindi usata in svariate forme e contesti. Di per sè, la 
parola «majdan» significa piazza; dato che le manifestazioni del 2014 a Kiev si 
svolsero principalmente in majdan Nezaležnosti, ossia in piazza 
dell’Indipendenza (ovviamente, dall’URSS…), ecco che «il majdan» raffigura a 
pieno l’odierna Ucraina «democratica».
 *****
 Per come si è venuta strutturando storicamente, l’Ucraina è composta di 
regioni diverse, che si distinguono l’una dall’altra per religione, lingua, 
cultura e, ciò che è più importante, per mentalità. Si può dire a grandi linee 
che della compagine ucraina fanno parte: Donbass (Lugansk, Donetsk, 
Dnepropetrovsk, Zaporož’e), Ucraina centrale (Khar’kov, Poltava, Kiev, 
Černigov, Sumy, Čerkassy, Kirovograd, Žitomir, Vinnitsa), Ucraina meridionale 
(Kherson, Nikolaev, Odessa; anche se, sinceramente, Odessa è sempre stata una 
città particolare, con una propria, unica atmosfera), Ucraina occidentale 
(Khmel’nitskij, Ternopol’, Ivano-Frankovsk, Černovtsy, L’vov, Volyn’, Rovno), 
Transcarpazia (Užgorod). Una regione assolutamente separata dall’Ucraina è 
sempre stata la Crimea, con una mentalità esclusivamente russa.
 La maggior parte dei territori si sono uniti alla moderna Ucraina nel corso 
della formazione dello Stato sovietico. Ad esempio, le regioni occidentali 
entrarono nella compagine della Repubblica socialista sovietica ucraina solo 
nel settembre del 1939. Nello stesso anno, entrò a far parte dell’Ucraina anche 
il più moderno centro della rinascita del nazionalismo ucraino, L’vov. Gli anni 
del potere sovietico sono contrassegnati da una forte crescita industriale in 
tutta l’Ucraina, con la nascita di grandi centri industriali nell’est-sudest 
del paese. 
 Gli abitanti dell’Ucraina centrale e orientale si integrarono positivamente in 
tutte le sfere della vita dello Stato sovietico. Al contrario, gli abitanti 
dell’Ucraina occidentale rimasero, per la maggior parte, del tutto isolati. 
Anche negli anni del potere sovietico, i rappresentanti della Galizia (regione 
di L’vov) si sono sempre distinti per un’accesa retorica anti-russa e 
un’aggressività – a quel tempo ancora tacita – verso tutto quanto fosse russo; 
consideravano gli abitanti dell’Ucraina centrale e orientale non del tutto 
ucraini o semplicemente “moscolej” (termine dispregiativo in uso nell’Ucraina 
occidentale per indicare i russi). Ed è andata avanti così fino al crollo 
dell’URSS.
 Ora, vari politici e cosiddetti attivisti nazionalisti parlano molto 
dell’indipendenza ucraina da essi conquistata. E lo fanno, ignorando 
completamente il fatto che l’Unione Sovietica è stata distrutta da Gorbačëv e 
dalla sua squadra. L’Ucraina, i Paesi baltici, al pari delle altre repubbliche 
dell’URSS, conseguirono l’indipendenza non in seguito a una lunga lotta, ma, di 
fatto, dalle mani di Gorbačëv, che credeva ciecamente nelle promesse 
dell’Occidente. Il crollo definitivo dell’URSS, nel dicembre 1991, fu poi 
sanzionato dai leader delle tre più grandi repubbliche dell’URSS: Federazione 
Russa, Ucraina e Bielorussia.
 Dopo il crollo dell’URSS, le élite politiche dell’Ucraina indipendente non 
tardarono a far propria l’economia di mercato. Cominciò un’accanita divisione 
dei resti dell’eredità sovietica. L’epoca degli anni ’90 diede vita a una nuova 
struttura sociale: gli oligarchi. Privatizzando le proprietà statali e brigando 
per ingannare il popolo, che non capiva nulla di mercato, i nuovi padroni della 
vita sociale in breve tempo si arricchirono favolosamente. Contemporaneamente, 
facevano la loro comparsa nel paese i nuovi “amici”, dai paesi occidentali e 
dagli USA.
 Naturalmente, questi “amici” occidentali, come il Serpente nel Giardino 
dell’Eden, insinuavano una mela dopo l’altra, che i politici ucraini, insieme 
alle élite del business, erano contenti di mordere. In maniera particolarmente 
attiva, veniva propagandata l’affidabilità del sistema bancario occidentale e, 
per meglio mettere al sicuro e nascondere i soldi rubati, questi scorrevano a 
fiumi dall’Ucraina verso conti bancari esteri in tutto il mondo, principalmente 
negli USA.
 Fu così che le nuove élite si saldarono rapidamente e sicuramente, dando vita 
a occulte “cordate-vincoli”, attraverso cui i “partner” li avrebbero trascinati 
ad adottare decisioni su tutte le questioni politiche di importanza vitale per 
l’Occidente. Quindi, in un periodo di tempo abbastanza breve, l’Occidente aveva 
raggiunto l’obiettivo: l’anima dell’Ucraina (la sua sovranità) era stata 
venduta. Peccato che, anni dopo, toccasse all’intero paese dipanare i risultati 
dell’avidità dei politici ucraini.
 Nei Paesi baltici, dove non esisteva un’industria così sviluppata e le élite 
locali avevano più facilmente troncato i legami con la Russia, i “partner” 
occidentali agirono in modo ancora più semplice. Sulle Repubbliche si riversò 
un flusso di benefici della “civiltà occidentale”, sotto forma delle merci più 
disparate: dai prodotti alimentari alle automobili. E, naturalmente, insieme a 
queste, arrivarono le banche occidentali, per concedere facili prestiti a 
destra e a manca, a una sola piccola condizione: garanzie immobiliari. 
 Da parte loro, le Repubbliche baltiche, su ordine dell’Occidente, 
privatizzarono la terra. E le banche, con grande soddisfazione, iniziarono a 
concedere prestiti dietro cauzione della terra privatizzata. Lentamente, ma 
risolutamente, cittadini di paesi occidentali cominciarono a diventare 
proprietari di beni immobili e terreni, acquisendo tranquillamente le proprietà 
confiscate dalle banche per crediti inesigibili. Vale a dire: non era qui 
necessario spendersi in guerre di conquista. Tutto avveniva in silenzio, 
tranquillamente e pacificamente.
 Vero è che, come risultato di tale politica, ci imbattiamo in una situazione 
assolutamente unica, che non si osserva in nessun’altra parte del mondo. In 
presenza di condizioni di stabilità politica, crescita economica e assenza di 
conflitti armati sul proprio territorio, gli abitanti dei Paesi baltici 
rinunciano in massa a vivere nel proprio paese e se ne vanno, ancor più in 
fretta dei rifugiati dei paesi d’Asia e Africa, sconvolti da rivoluzioni e 
guerre civili. 
 Mai prima d’ora la popolazione autoctona di questa regione era fuggita come fa 
oggi: semplicemente, i gruppi etnici titolari dei Paesi baltici non vogliono 
più vivere nei loro paesi. Secondo uno studio dell’Università della Lettonia, 
il 62,7% di coloro che se ne sono andati, ha dichiarato di non voler tornare 
perché deluso, tanto dal paese, quanto dallo Stato. Tra coloro che erano 
tornati, il 40% ha cambiato idea e se ne è andato di nuovo. Le ricerche 
dimostrano che oltre un quarto della popolazione in età lavorativa pensa di 
emigrare; e si tratta principlamente delle persone più attive, che mirano a una 
carriera, e sono in grado di adattarsi alla vita di un altro paese.
 Ma il percorso scelto per l’Ucraina dalle sue élite, è ancora più duro e molto 
più doloroso. All’inizio degli anni 2000, si era affacciata una flebile 
speranza di rinascita: l’economia ucraina aveva ripreso vitalità, i rapporti 
commerciali e industriali si stavano nuovamente integrando con l’economia 
russa. E ciò era avvenuto in modo particolarmente attivo nel periodo del 
governo di Viktor Yanukovič. Egli, con l’obiettivo della crescita economica, 
sosteneva conseguentemente la necessità per Russia, Ucraina e paesi della CSI 
di risolvere i problemi relativi all’unificazione delle merci e ai mutamenti 
della struttura produttiva, che consentissero di offrire prodotti competitivi 
sui mercati mondiali. Dato però che l’Occidente aveva piani in certo qual modo 
«diversi» per l’Ucraina, ci si affrettò a cambiare vettore di sviluppo, 
volgendo in fretta l’Ucraina verso l’Europa e contrapponendola alla Russia.
 Per far ciò, nel 2004 fu avviata l’operazione «rivoluzione arancione», che 
diede il via a una fase attiva del crollo del paese. A dispetto della 
Costituzione, sotto una fortissima pressione occidentale, alla carica di 
Presidente fu lanciata la candidatura perfettamente amorfa di Viktor Juščenko, 
uomo debole e di corte vedute e, perciò, non scelto a caso. Si adattava 
magnificamente al ruolo di esecutore dei piani occidentali per il crollo 
dell’Ucraina. Fu sotto di lui e con il suo aiuto che, sulla società ucraina, 
furono sganciate bombe ideologiche a scoppio ritardato, che avrebbero 
inevitabilmente diviso la società, frantumandola in clan e sottogruppi. Una di 
queste bombe fu il riconoscimento di Stepan Bandera quale eroe dell’Ucraina, 
che generò la divisione ideologica del paese. Ecco una serie di esempi di 
simili bombe ideologiche a tempo:
 Lo sviluppo della chiesa non canonica e il pluriennale completo silenzio 
sull’incameramento di chiese, la proscrizione della chiesa ortodossa ucraina: 
tutto ciò ha prodotto una divisione spirituale. All’inizio del 2019, questa 
carica è esplosa prepotentemente: gli scismatici hanno ricevuto un tomos dalle 
mani del patriarca ecumenico Bartolomeo, residente regolarmente in territorio 
turco. Ciò appare particolarmente beffardo, se ricordiamo che i “patrioti 
dell’Ucraina” sostengono di essere — dicono loro – eredi del famoso Sich di 
Zaporože, che fu sempre nemico implacabile della Turchia.
 Il divario tra ricchi e poveri, cresciuto nel corso degli anni, ha provocato 
una divisione sociale particolarmente acuta.
 E come non ricordare le parole di Julija Timošenko: «Bisogna recintare il 
Donbass col filo spinato e lanciarci sopra bombe atomiche”? Oppure gli slogan 
elettorali di Viktor Juščenko, che in Donbass vivono solo “banditi”? Casualità? 
No, avevano bisogno di una divisione territoriale basata sulla nazionalità: 
infatti in Donbass vivono soprattutto russi.
 Insieme alla esaltazione di controversi personaggi storici, Viktor Juščenko 
innescò anche quella che doveva diventare la bomba più potente, lavorando sulla 
«immagine» della Russia. Molti ricordano probabilmente le sue ripetute tournée 
estere, con gli appelli alla comunità internazionale per riconoscere come 
genocidio il golodomor del 1933 in Ucraina. Le recriminazioni venivano avanzate 
nei confronti della Federazione Russa, ma nessuno si preoccupava di precisare 
che analoghi fatti storici si fossero verificati negli anni ’30 anche sul 
territorio della Russia stessa: nel Kuban e nella regione del Volga. E gli 
sforzi di Juščenko non furono vani: fu dato il via a un’immagine della Russia 
quale aggressore sanguinario.
 Tutte queste azioni erano dirette a sconvolgere l’Ucraina. Di “bombe” ce ne 
sono state molte altre, ma quelle sopra elencate divennero la base per un 
lento, ma sicuro crollo dello Stato. Oggi possiamo constatare come ciascuna 
delle bombe innescate sia esplosa, seminando nel paese caos e completa 
schizofrenia politica. È un peccato che non si siano trovati nel paese 
«sminatori» competenti, mentre i “bombaroli” si sono rivelati più scaltri e più 
abili, e gli esecutori non hanno fallito…
 L’obiettivo di queste manipolazioni è perfettamente chiaro: divide et impera. 
Gli USA sono razziatori mondiali, che non comprano mai nulla al prezzo di 
mercato. Loro, come un boa, avvolgendo la vittima un anello dopo l’altro, 
esauriscono le sue forze, stringendo sempre più… Per loro, è più vantaggioso 
prendere tutto al prezzo più basso; meglio ancora, in regalo. Senza risparmiare 
denaro, distribuiscono “30 pezzi d’argento ai moderni Giuda”, disposti per quei 
soldi a vendere tutto e tutti.
 Lanciando le reti, gli USA lasciano sempre uno spazio di manovra: alla vittima 
rimane di solito una via d’uscita brutta, un’altra molto brutta e una super 
brutta. La scelta dipende sempre dall’ardore delle passioni. È sempre più 
corretto disinnescare le emozioni e, agendo a mente fredda, non cadere affatto 
nella rete. Purtroppo, in Ucraina, non si sono trovati prodi simili. Con la 
tacita connivenza di milioni di persone, il paese ha perduto la propria 
statualità, permettendo a un miserevole pugno di lobbisti pro-occidentali di 
distruggere e assassinare, annientando il proprio stesso popolo.
 E tutto questo subbuglio è poi sfociato nel colpo di stato armato, compiuto a 
Kiev alla fine di febbraio 2014. La ragione formale della ‘”indignazione 
popolare” fu il rifiuto del Presidente Janukovič di firmare l’Accordo di 
associazione all’Unione europea, su cui insisteva così tanto l’Europa. Avevano 
una tale fretta che lo stesso testo dell’Accordo non era stato nemmeno tradotto 
e non si era svolta alcuna discussione sul documento.
 All’inizio, però, le proteste non trovarono un sostegno di massa. Allora, gli 
organizzatori si misero sulla strada, a lungo sperimentata, tesa a suscitare il 
malcontento delle masse: fu organizzata una provocazione contro la milizia, la 
risposta di questa fu registrata su video e diffusa immediatamente dai media 
occidentali. Tutto ciò avveniva alle 4 del mattino, sulla piazza centrale della 
capitale ucraina, dove, “in modo perfettamente casuale”, si trovavano diverse 
troupe, che registravano tutto su video e lo trasmettevano. Proprio questo 
costituì il «grilletto di sparo» che scatenò il secondo majdan che, sotto la 
direzione dell’ambasciata USA e le visite di incoraggiamento dei leader 
europei, si trasformò in colpo di stato armato.
 Tutto ciò che accadeva a majdan, solo apparentemente poteva sembrare un 
movimento spontaneo di masse popolari indignate per le ruberie governative. 
Anche senza menzionare il fatto scandaloso delle sfacciate interferenze negli 
affari interni di uno Stato sovrano, quando senatori e esponenti USA (Biden, 
McCain, Nuland), Presidenti europei (Gribauskajte, Kaczyński, Kwaśniewski, 
Wałęsa) arrivavano a majdan appositamente per incoraggiare le persone nella 
loro indignazione contro il potere legittimo, nel corso di tutto lo scontro tra 
le autorità e il majdan — anche senza menzionare tutto ciò, si avvertiva 
chiaramente la presenza di una direzione esterna. Osservando attentamente ciò 
che stava accadendo, si poteva vedere il chiaro algoritmo dell’indignazione 
artificiale delle masse, la loro regia.
 Ogni lunedì, dopo le “assemblee popolari” domenicali, si registrava un 
naturale declino dell’interesse per ciò che stava accadendo a majdan. Molte 
persone, prese dai propri affari, si allontanavano e majdan si vuotava a vista 
d’occhio. Ma, per gli organizzatori, era essenziale mostrare ai media 
l’ennesima immagine di “masse popolari giustamente indignate”. Per questo, era 
necessaria un’esplosione di emozioni popolari, in grado di far nuovamente 
confluire le persone a majdan. Proprio per questo, tutti gli eventi di rilievo 
si verificavano appositamente a metà settimana, in modo che poi, la domenica 
successiva, majdan si riempisse nuovamente di persone. Il primo sangue di 
majdan fu versato il 22 gennaio 2014. Era un mercoledì. Mi voglio soffermare su 
questo omicidio.
 L’assassinio di Sergej Nigojan. La sua famiglia, originaria del 
Nagorno-Karabakh, proprio sul confine tra Armenia e Azerbajdžan, era fuggita 
dalla guerra. Sergej era nato quando già la famiglia si era stabilita in 
Ucraina. Conosceva bene la lingua ucraina, ma aveva una fisionomia non 
tipicamente ucraina. Quattro giorni prima del suo assassinio, la TSN aveva 
registrato un video che… verrà mandato in onda dopo il suo assassinio. Così 
come, dopo l’omicidio, comparve un video girato nel dicembre 2013, in cui 
Nigojan legge i versi “Caucaso” di Taras Ševčenko. Ovviamente, gli 
organizzatori accusarono immediatamente del delitto le forze speciali della 
milizia «Berkut», che fronteggiavano majdan. Ma l’autopsia dimostrò in seguito 
che Sergej era stato ucciso da una rosa di colpi esplosi da un fucile da caccia 
e non da un’arma di servizio della milizia. Per di più, due colpi erano stati 
sparati al corpo e un terzo alla testa. Era stato un omicidio a sangue freddo, 
commesso solo per sollevare una nuova ondata di indignazione e riempire così 
majdan, la domenica successiva, di persone esasperate…
 Ed è stato così per tutti gli altri eventi significativi di majdan, che hanno 
avuto luogo a metà della settimana: ora picchiavano la giornalista 
d’opposizione Tatjana Černovol, poi sequestravano il coordinatore di 
«Automajdan», Dmitrij Bulatov, poi ancora qualcos’altro. Anche le sparatorie 
contro le persone nel centro di Kiev si inseriscono perfettamente in questa 
serie di eventi. 
 Troppo a lungo si trascinava la contrapposizione e troppo ostinatamente 
Janukovič rifiutava di ricorrere alla forza. Al contrario, gli elementi di 
majdan avevano bisogno di molto sangue, affinché il “regime sanguinario” 
diventasse, alla fine, davvero sanguinario. Avevano bisogno di una grande 
vittima sacrificale, su cui si potesse focalizzare l’attenzione di tutta la 
comunità internazionale.
 Le fucilate, che provocarono la morte di 43 persone, furono esplose al mattino 
del 20 febbraio, in via dell’Istituto. Le persone furono colpite da cecchini 
appostati alle loro spalle: dall’albergo Ucraina, il cui edificio dà 
direttamente su via dell’Istituto, e dal tetto del Conservatorio di Kiev, 
direttamente su majdan. C’è già uno studio di esperti indipendenti, quali ad 
esempio il politologo canadese Ivan Kačanovskij. C’è la dichiarazione 
dell’eruodeputato polacco Janusz Korwin-Mikke, che già il 20 aprile 2014 aveva 
apertamente affermato che i cecchini che avevano sparato a majdan erano stati 
addestrati in Polonia.
 Ma il primo vero e proprio fulmine a ciel sereno risuonò dopo la pubblicazione 
del colloquio tra il Ministro degli esteri estone Urmas Paet e l’Alta 
rappresentante esteri UE Catherine Ashton: in essa, Paet dichiarava apertamente 
che le persone di via dell’Istituto erano state uccise dall’opposizione. “… 
Preoccupa altamente, che la nuova coalizione non voglia indagare sulle 
circostanze esatte dell’accaduto. Cresce rapidamente la convinzione che dietro 
quei cecchini non ci fosse Janukovič, ma qualcuno della nuova coalizione”, così 
Urmas Paet esprimeva alla collega di Bruxelles le impressioni del suo viaggio 
in Ucraina.
 Questo colloquio azzerò completamente la mitologia e tutta l’aureola romantica 
della “rivoluzione della dignità”. Alla luce di quelle parole, diveniva chiaro 
che tutta la regia di majdan era stata perfettamente organizzata, che era stato 
messo a punto un meccanismo, volto al rovesciamento del precedente regime, che 
al momento giusto doveva infiammare, stimolare e indirizzare l’indignazione 
della folla verso il corso voluto. Diventa in tal modo comprensibile anche il 
fatto che, immediatamente dopo majdan, con il pretesto di una ristrutturazione, 
tutti gli alberi di via dell’Istituto venissero abbattuti. Il nuovo governo si 
dava attivamente da fare per cancellare le tracce dei propri crimini.
 E non sorprende nemmeno, che il 31 marzo 2014 la Verkhovnaja Rada adottasse la 
legge “Sulla eliminazione delle conseguenze negative e sulla inammissibilità di 
persecuzioni e sanzioni per avvenimenti verificatisi nel corso di pacifiche 
riunioni”; legge secondo cui non potevano esser istruiti nuovi procedimenti 
penali e procedimenti per violazioni amministrative, relativi a tali eventi, e 
tutti i procedimenti istruiti in precedenza contro partecipanti a riunioni 
pacifiche avrebbero dovuto esser chiusi (rientrando nell’amnistia). Vale a 
dire: tutti coloro che avevano attaccato le forze dell’ordine schierate a 
difesa dell’ordinamento statale, come pure coloro che avevano compiuto un colpo 
di stato armato, venivano completamente affrancati da ogni tipo di azione 
penale.
 Tutto ciò, nonostante che durante gli scontri, 23 agenti fossero stati uccisi 
nell’adempimento delle loro funzioni, 932 fossero rimasti feriti; tra questi, 
257 avevano riportato lesioni gravi, e 158 presentavano ferite da arma da 
fuoco. Tutte queste persone erano cittadini ucraini e funzionari in servizio. 
Avevano riportato mutilazioni ed erano morti nell’adempimento del dovere. Dove 
erano, in quel momento, i leader e gli attivisti dei paesi occidentali? Dove 
erano in quel momento i media occidentali?
 Perché questi morti e questi feriti sono rimasti ignorati? Viene spontanea una 
sola risposta a tutte queste domande: è stato l’Occidente a promuovere in 
Ucraina il rovesciamento del potere legittimo. Esattamente con la connivenza e 
l’aperto incoraggiamento dei leader dei paesi occidentali, si è compiuto in 
Ucraina un colpo di stato armato, in seguito a cui sono andate al potere 
persone completamente controllate dall’Occidente.
 Majdan e la sua impunità portarono allo scoperto persone che presto, con la 
connivenza dello Stato, avrebbero preso le armi e scatenato una guerra civile 
nel sudest dell’Ucraina. Ma questa è la fase successiva, molto triste, della 
storia ucraina, che deve essere raccontata a sé.
 * traduzione e introduzione di Fabrizio Poggi
 

 ---
 

 
http://contropiano.org/news/internazionale-news/2019/10/26/il-passaporto-russo-agli-abitanti-del-donbass-0120082
 
http://contropiano.org/news/internazionale-news/2019/10/26/il-passaporto-russo-agli-abitanti-del-donbass-0120082
 

 Il passaporto russo agli abitanti del Donbass 

di Andrej Kocetov - Fabrizio Poggi 
http://contropiano.org/author/redazione-contropiano, 26 Ottobre 2019
 

 Andrej Kočetov interviene sulla questione della concessione della cittadinanza 
russa agli abitanti delle Repubbliche popolari del Donbass. Lo scorso 24 
aprile, dopo che Vladimir Zelenskij, appena eletto alla presidenza ucraina, 
aveva palesato le reali intenzioni di Kiev nei confronti del Donbass, Vladimir 
Putin aveva firmato il decreto sulla semplificazione delle procedure per la 
concessione del passaporto russo agli abitanti di DNR e LNR che lo desiderino. 
 In luglio, poi, il Cremlino aveva esteso ai circa 3 milioni dell’intera 
popolazione delle regioni di Donetsk e Lugansk (non solo delle Repubbliche 
popolari) la semplificazione delle procedure, e si parlava di oltre 60.000 
domande di cittadinanza già presentate dagli abitanti di DNR e LNR e 25.000 
passaporti già concessi. 
 Come ricorda Andrej, da tempo Ungheria 
http://contropiano.org/news/internazionale-news/2018/08/06/kiev-budapest-un-nazionalismo-contro-laltro-0106533,
 Romania, Turchia, Polonia 
http://contropiano.org/news/internazionale-news/2017/03/31/lanciagranate-amicizia-polacco-ucraina-090458
 concedono la cittadinanza alle minoranze ucraine delle regioni confinarie, 
senza che ciò abbia mai provocato le reazioni delle diplomazie europee, come 
per il Donbass. 
 ******
 Concedendo il passaporto russo agli abitanti del Donbass e semplificando le 
procedure per l’ottenimento della cittadinanza russa, la Russia sta cercando la 
strada per come meglio aiutare i cittadini del Donbass, i cui spostamenti sono 
stati resi praticamente impossibili dal blocco imposto dall’Ucraina. Molti di 
loro ottengono il passaporto russo, in quanto semplicemente non in grado di 
varcare la frontiera anche solo, semplicemente, per apporre una nuova 
fotografia sul proprio passaporto ucraino. 
 La concessione del passaporto della Federazione Russa agli abitanti delle 
Repubbliche popolari, rende quindi possibili i loro spostamenti e contribuisce 
al ristabilimento della giustizia. A mio avviso, sono assolutamente 
incomprensibili le contestazioni mosse alla Russia da parte di alcuni europei, 
per il fatto che, d’ora in avanti, gli abitanti del Donbass avranno la 
possibilità di ottenere la cittadinanza russa e il passaporto della Federazione 
Russa. 
 Sollevando tali polemiche, i Paesi europei, e la stessa Ucraina, dimostrano la 
propria ipocrisia e ambiguità, il proprio doppio standard. Nessuno infatti si 
indigna, allorché Polonia, Ungheria, Romania, basandosi sul fatto di comuni 
radici etniche, offrono la possibilità agli ucraini di ottenere il passaporto 
dei propri paesi. E invece, quando i russi etnici, che parlano la lingua russa, 
che sono russi per spirito, ottengono il passaporto della Federazione Russa, 
ciò in qualcuno provoca stupore. 
 Ma, allora, sorge la domanda: quale è la differenza? No, non c’è alcuna 
differenza. Allo stesso modo degli abitanti dell’Ucraina con radici etniche 
rumene, polacche o ungheresi, che desiderano ottenere il passaporto di tali 
Stati, così anche gli abitanti con radici etniche russe hanno il medesimo 
diritto di ottenere la cittadinanza della Federazione Russa. 
 Dunque, appaiono non democratiche e violano le norme internazionali, 
esternazioni come quelle espresse nell’agosto 2019 dai Ministeri degli esteri 
di Lituania e Estonia, sul non riconoscimento in Europa dei passaporti della 
Federazione Russa, concessi in via semplificata agli abitanti del Donbass. 
 E’ il caso di ricordare la cronistoria della questione: il 24 aprile il 
Presidente russo Vladimir Putin ha firmato l’Ukaz sulla semplificazione delle 
procedure per la concessione dei passaporti russi agli abitanti del Donbass. 
Quindi, il 17 luglio, lo stesso Presidente russo ha esteso a tutti gli ucraini 
delle regioni di Donetsk e di Lugansk che vivono nel paese la semplificazione 
per l’ottenimento della cittadinanza russa. 


Rispondere a