Manlio Dinucci
BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI

(SEGUE) PARTI 6... 10. Fonti:
https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/20111498
https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/20163788
https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/20233439
https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/20294771
https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/20545499


Si vedano anche:

– M. Dinucci: Breve storia della NATO dal 1991 ad oggi – LE PARTI PRECEDENTI 
(1--5):
https://www.mail-archive.com/jugoinfo@yahoogroups.com/msg00082.html  oppure
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8716

– il libro di Manlio Dinucci
L’arte della guerra. Analisi della strategia USA/NATO (1990-2015)
Prefazione di Alex Zanotelli. Nota redazionale di Jean Toschi Marazzani Visconti
Zambon editore, 2015, pp. 550, euro 18,00
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8419

– la serie di Manlio Dinucci del 2014-2015 sul riorientamento strategico della 
Nato dopo la guerra fredda:
Prima parte: 
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8200
Seconda e terza parte: 
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8208
Quarta e quinta parte: 
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8225

Sulla storia della NATO ben prima del 1991 segnaliamo:

LA NATO. IL NEMICO IN CASA (1968)
Regia: Giuseppe Ferrara. Casa di produzione: Pci. Sezione stampa e propaganda
Abstract: Il documentario, realizzato interamente con materiali di repertorio, 
è una ricostruzione degli eventi che precedettero la firma del Patto Atlantico 
e degli avvenimenti spesso drammatici che si sono succeduti in Italia e nel 
mondo. Le lotte popolari in difesa della pace e per l'indipendenza nazionale, i 
conflitti armati determinati in diversi paesi dalla politica aggressiva 
dell'imperialismo americano
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=bfPSPelQAqw


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BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (PARTE 6)

Manlio Dinucci

LA GUERRA USA/NATO IN IRAQ

Il piano statunitense di attaccare e occupare l’Iraq appare evidente quando, 
dopo l’occupazione dell’Afghanistan nel novembre 2001, il presidente Bush mette 
l'Iraq, nel 2002, al primo posto tra i paesi facenti parte dell’«asse del male».

Dopo la prima guerra del Golfo nel 1991, l’Iraq è stato sottoposto ad un ferreo 
embargo che ha provocato in dieci anni circa un milione di morti, di cui circa 
mezzo milione tra i bambini. Una strage provocata, oltre che dalla denutrizione 
cronica e la mancanza di medicinali, dalla carenza di acqua potabile e dalle 
conseguenti malattie infettive e parassitarie. Gli Stati Uniti – dimostrano 
documenti venuti alla luce successivamente – hanno attuato un preciso piano: 
prima bombardare gli impianti di depurazione e gli acquedotti per provocare una 
crisi idrica, quindi impedire con l’embargo che l’Iraq possa importare i 
sistemi di depurazione. Le conseguenze sanitarie erano chiaramente previste sin 
dall’inizio e programmate in modo da accelerare il collasso dell’Iraq. Altre 
vittime vengono provocate, negli anni successivi alla prima guerra, dai 
proiettili a uranio impoverito, massicciamente usati dalle forze statunitensi e 
alleate sia nei bombardamenti aerei che in quelli terrestri.

La seconda guerra contro l’Iraq si rivela però più difficile a motivare di 
quella effettuata nel 1990-91. A differenza di allora, l’Iraq di Saddam Hussein 
non compie alcuna aggressione e si attiene alla Risoluzione 1441 del Consiglio 
di sicurezza delle Nazioni Unite, permettendo agli ispettori Onu di entrare in 
tutti i siti per verificare l’eventuale esistenza di armi di distruzione di 
massa (che non vengono trovate). Diviene di conseguenza più difficile per gli 
Stati Uniti creare la motivazione «legale» per la guerra e, su questa base, 
ottenere un imprimatur internazionale analogo a quello del 1991.

L’amministrazione Bush è però decisa ad andare fino in fondo. Fabbrica una 
serie di «prove», che successivamente risulteranno false, sulla presunta 
esistenza di un grosso arsenale di armi chimiche e batteriologiche, che sarebbe 
in possesso dell’Iraq, e su una sua presunta capacità di costruire in breve 
tempo armi nucleari. E, poiché il Consiglio di sicurezza dell’Onu si rifiuta di 
autorizzare la guerra, l’amministrazione Bush semplicemente lo scavalca.

La guerra inizia il 20 marzo 2003 con il bombardamento aereo di Baghdad e altri 
centri da parte dell’aviazione statunitense e britannica e con l’attacco 
terrestre effettuato dai marines entrati in Iraq dal Kuwait. Il 9 aprile truppe 
Usa occupano Baghdad. L’operazione, denominata «Iraqi Freedom», viene 
presentata come «guerra preventiva» ed «esportazione della democrazia». Viene 
in tal modo attuato il principio enunciato dal Pentagono (Quadrennial Defense 
Review Report, 30 settembre 2001): «Le forze armate statunitensi devono 
mantenere la capacità, sotto la direzione del Presidente, di imporre la volontà 
degli Stati Uniti a qualsiasi avversario, inclusi stati ed entità non-statali, 
cambiare il regime di uno stato avversario od occupare un territorio straniero 
finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati».

Ma, oltre alla «volontà degli Stati Uniti», c’è la volontà dei popoli di 
resistere. E’ ciò che avviene in Iraq, dove le forze di occupazione 
statunitensi e alleate – comprese quelle italiane impegnate nell’operazione 
«Antica Babilonia» – cui si uniscono i mercenari di compagnie private, 
incontrano una resistenza che non si aspettavano di trovare, nonostante la 
durissima repressione che provoca nella fase iniziale della guerra (solo per 
effetto delle azioni militari) decine di migliaia di morti tra la popolazione.

Poiché la resistenza irachena inceppa la macchina bellica statunitense e 
alleata, Washington ricorre all’antica ma sempre efficace politica del «divide 
et impera», facendo delle concessioni ad alcuni raggruppamenti sciiti e curdi 
così da isolare i sunniti. Nel caso che l’operazione non riesca, Washington ha 
pronto il piano di riserva: disgregare l’Iraq (come già fatto con la 
Federazione Jugoslava) in modo da poter controllare le zone petrolifere e altre 
aree di interesse strategico, attraverso accordi con gruppi di potere locali.

È a questo scopo che interviene ufficialmente la Nato, la quale ha fino a quel 
momento partecipato alla guerra di fatto con proprie strutture e forze. Nel 
2004 viene istituita la «Missione Nato di addestramento», al fine dichiarato di 
«aiutare l’Iraq a creare efficienti forze armate». Dal 2004 al 2011 vengono 
addestrati, in 2000 corsi speciali tenuti in paesi dell’Alleanza, migliaia di 
militari e poliziotti iracheni che vengono anche dotati di armi donate dagli 
stessi paesi.

Contemporaneamente la Nato invia in Iraq istruttori e consiglieri, compresi 
quelli italiani, per «aiutare il paese a creare un proprio settore della 
sicurezza a guida democratica e durevole» e per «stabilire una partnership a 
lungo termine della Nato con l’Iraq».


BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (PARTE 7)

Manlio Dinucci

LA SEMPRE PIU’ STRETTA COOPERAZIONE MILITARE NATO-ISRAELE

Nell’aprile 2001 Israele firma al quartier generale della Nato a Bruxelles 
l’«accordo di sicurezza», impegnandosi a proteggere le «informazioni 
classificate» che riceverà nel quadro della cooperazione militare.
Nel giugno 2003 il governo italiano stipula con quello israeliano un memorandum 
d’intesa per la cooperazione nel settore militare e della difesa, che prevede 
tra l’altro lo sviluppo congiunto di un nuovo sistema di guerra elettronica.
Nel gennaio 2004 un aereo radar Awacs della Nato atterra per la prima volta a 
Tel Aviv e il personale israeliano viene addestrato all’uso delle sue 
tecnologie.
Nel dicembre 2004 viene data notizia che la Germania fornirà a Israele altri 
due sottomarini Dolphin, che si aggiungeranno ai tre (di cui due regalati) 
consegnati negli anni Novanta. Israele può così potenziare la sua flotta di 
sottomarini da attacco nucleare, tenuti costantemente in navigazione nel 
Mediterraneo, Mar Rosso e Golfo Persico.
Nel febbraio 2005 il segretario generale della Nato compie la prima visita 
ufficiale a Tel Aviv, dove incontra le massime autorità militari israeliane per 
«espandere la cooperazione militare».
Nel marzo 2005 si svolge nel Mar Rosso la prima esercitazione navale congiunta 
Israele-Nato: il comando del gruppo navale della «Forza di risposta Nato» è 
affidato alla marina italiana che vi partecipa con la fregata Bersagliere.
Nel maggio 2005, dopo essere stato ratificato al senato e alla camera, il 
memorandum d’intesa italo-israeliano diviene legge: viene così 
istituzionalizzata la cooperazione tra i ministeri della difesa e le forze 
armate dei due paesi riguardo l’«importazione, esportazione e transito di 
materiali militari», l’«organizzazione delle forze armate», la 
«formazione/addestramento».
Nel maggio 2005 Israele viene ammesso quale membro dell’Assemblea parlamentare 
della Nato.
Nel giugno 2005 la marina israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel 
Golfo di Taranto.
Nel luglio 2005 truppe israeliane partecipano per la prima volta a una 
esercitazione Nato, che si svolge in Ucraina.
Nel giugno 2006 una nave da guerra israeliana partecipa a una esercitazione 
Nato nel Mar Nero allo scopo di «creare una migliore interoperabilità tra la 
marina israeliana e le forze navali Nato».
Nell’ottobre 2006, Nato e Israele concludono un accordo che stabilisce una più 
stretta cooperazione israeliana al programma Nato «Dialogo mediterraneo», il 
cui scopo è «contribuire alla sicurezza e stabilità della regione». In tale 
quadro, «Nato e Israele si accordano sulle modalità del contributo israeliano 
all’operazione marittima della Nato Active Endeavour» (Nato/Israel Cooperation, 
16 ottobre 2006).
Israele viene così premiato dalla Nato per l’attacco e l’invasione del Libano. 
Le forze navali israeliane, che insieme a quelle aeree e terrestri hanno appena 
martellato il Libano con migliaia di tonnellate di bombe facendo strage di 
civili, vengono integrate nella operazione Nato che dovrebbe «combattere il 
terrorismo nel Mediterraneo». Le stesse forze navali che, bombardando la 
centrale elettrica di Jiyyeh sulle coste libanesi, hanno provocato una enorme 
marea nera diffusasi nel Mediterraneo (la cui bonifica verrà a costare 
centinaia di milioni di dollari), collaborano ora con la Nato per «contribuire 
alla sicurezza della regione».
Il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell’attacco israeliano a Gaza, 
la Nato ratifica il «Programma di cooperazione individuale» con Israele. Esso 
comprende una vasta gamma di campi in cui «Nato e Israele coopereranno 
pienamente»: controterrorismo, tra cui scambio di informazioni tra i servizi di 
intelligence; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione 
nel settore degli armamenti; aumento delle esercitazioni militari congiunte 
Nato-Israele; allargamento della cooperazione nella lotta contro la 
proliferazione nucleare (ignorando che Israele, unica potenza nucleare della 
regione, ha rifiutato di firmare il Trattato di non-proliferazione).

LA NATO «A CACCIA DI PIRATI» NELL’OCEANO INDIANO

Nell’ottobre 2008, un gruppo navale della Nato, lo Standing Nato Maritime Group 
2 (Snmg2), attraversa il Canale di Suez, entrando nell’Oceano Indiano. Ne fanno 
parte navi da guerra di Italia, Stati uniti, Germania, Gran Bretagna, Grecia e 
Turchia. Questo gruppo navale (il cui comando è assunto a rotazione dai paesi 
membri) fa parte di una delle tre componenti dello Allied Joint Force Command 
Naples, il cui comando è permanentemente attribuito a un ammiraglio 
statunitense, lo stesso che comanda le Forze navali Usa in Europa. L’area in 
cui opera lo Snmg2 non ha ormai più confini, in quanto esso costituisce una 
delle unità della «Forza di risposta della Nato», pronta a essere proiettata 
«per qualsiasi missione in qualsiasi parte del mondo».
Scopo ufficiale della missione dello Snmg2 nell’Oceano Indiano è condurre 
«operazioni anti-pirateria» lungo le coste della Somalia, scortando i 
mercantili che trasportano gli aiuti alimentari del World Food Program delle 
Nazioni Unite. In questo «sforzo umanitario», la Nato «continua a coordinare la 
sua assistenza con l’operazione Enduring Freedom a guida Usa». Dietro questa 
missione Nato, vi è quindi ben altro. In quel momento, in Somalia, la politica 
statunitense sta subendo un nuovo scacco: le truppe etiopiche, qui inviate nel 
2006 dopo il fallimento del tentativo della Cia di rovesciare le Corti 
islamiche sostenendo una coalizione «anti-terrorismo» dei signori della guerra, 
sono state costrette a ritirarsi dalla resistenza somala.
Washington prepara quindi altre operazioni militari per estendere il proprio 
controllo alla Somalia, provocando altre disastrose conseguenze sociali. Esse 
sono alla base dello stesso fenomeno della pirateria, nato in seguito alla 
pesca illegale da parte di flotte straniere e allo scarico di sostanze tossiche 
nelle acque somale, che hanno rovinato i piccoli pescatori, diversi dei quali 
sono ricorsi alla pirateria.
Nella strategia Usa/Nato, la Somalia è importante per la sua stessa posizione 
geografica sulle coste dell’Oceano Indiano. Per controllare quest’area è stata 
stazionata a Gibuti, all’imboccatura del Mar Rosso, una task force 
statunitense. L’intervento militare, diretto e indiretto, in questa e altre 
aree si intensifica ora con la nascita del Comando Africa degli Stati uniti. E’ 
nella sua «area di responsabilità» che viene inviato il gruppo navale Nato.
Esso ha anche un’altra missione ufficiale: visitare alcuni paesi del Golfo 
persico (Kuwait, Bahrain, Qatar ed Emirati Arabi Uniti), partner Nato nel 
quadro dell’Iniziativa di cooperazione di Istanbul. Le navi da guerra della 
Nato vanno così ad aggiungersi alle portaerei e molte altre unità che gli Usa 
hanno dislocato nel Golfo e nell’Oceano Indiano, in funzione anti-Iran e per 
condurre, anche con l’aviazione navale, la guerra aerea in Afghanistan.


BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (PARTE 8)

Manlio Dinucci

LA DEMOLIZIONE DELLO STATO LIBICO

La strategia Usa/Nato consiste nel demolire gli Stati che sono del tutto o in 
gran parte fuori del controllo degli Stati Uniti e delle maggiori potenze 
europee, soprattutto quelli situati nelle aree ricche di petrolio e/o con una 
importante posizione geostrategica. Si privilegiano, nella lista delle 
demolizioni, gli Stati che non hanno una forza militare tale da mettere in 
pericolo, con una rappresaglia, quella dei demolitori.
L’operazione inizia infilando dei cunei nelle crepe interne, che ogni Stato ha. 
Nella Federazione Jugoslava, negli anni Novanta, vengono fomentate le tendenze 
secessioniste, sostenendo e armando i settori etnici e politici che si 
oppongono al governo di Belgrado. Tale operazione viene attuata facendo leva su 
nuovi gruppi di potere, spesso formati da politici passati all’opposizione per 
accaparrarsi dollari e posti di potere.
Contemporaneamente si conduce una martellante campagna mediatica per presentare 
la guerra come necessaria per difendere i civili, minacciati di sterminio da un 
feroce dittatore.
Si chiede quindi l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, 
motivando l’intervento con la necessità di destituire il dittatore che fa 
strage di inermi civili. Basta il timbro con scritto «si autorizzano tutte le 
misure necessarie» ma, se non viene dato (come nel caso della Jugoslavia), si 
procede lo stesso. La macchina da guerra Usa/Nato, già approntata, entra in 
azione con un massiccio attacco aeronavale e operazioni terrestri all’interno 
del paese, attorno a cui è stato fatto il vuoto con un ferreo embargo.
Questa strategia, dopo essere stata attuata contro la Federazione Jugoslava, 
viene adottata contro la Libia nel 2011.
Vengono prima finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di 
Tripoli e anche gruppi islamici fino a pochi mesi prima definiti terroristi. 
Vengono allo stesso tempo infiltrate in Libia forze speciali, tra cui migliaia 
di commandos qatariani facilmente camuffabili. L’intera operazione viene 
diretta dagli Stati Uniti, prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la 
Nato sotto comando Usa.
Il 19 marzo 2011 inizia il bombardamento aeronavale della Libia. In sette mesi, 
l’aviazione Usa/Nato effettua 30mila missioni, di cui 10mila di attacco, con 
impiego di oltre 40mila bombe e missili.
A questa guerra partecipa l’Italia con le sue basi e forze militari, 
stracciando il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra i due 
paesi. Per la guerra alla Libia l’Italia mette a disposizione delle forze 
Usa/Nato 7 basi aeree (Trapani, Gioia del Colle, Sigonella, Decimomannu, 
Aviano, Amendola e Pantelleria), assicurando assistenza tecnica e rifornimenti. 
L’Aeronautica italiana partecipa alla guerra effettuando 1182 missioni, con 
cacciabombardieri Tornado, F-16 Falcon, Eurofighter 2000, AMX, droni Predator B 
ed aerorifornitori KC-767 e KC130J. La Marina militare italiana viene impegnata 
nella guerra su più fronti: dalle operazioni di embargo navale, alle attività 
di pattugliamento e rifornimento.
Con la guerra Usa/Nato del 2011, viene demolito lo Stato libico e assassinato 
lo stesso Gheddafi, attribuendo l’impresa a una «rivoluzione ispiratrice» che 
gli Usa si dicono fieri di sostenere, creando «una alleanza senza eguali contro 
la tirannia e per la libertà». Viene demolito quello Stato che, sulla sponda 
sud del Mediterraneo di fronte all’Italia, manteneva «alti livelli di crescita 
economica» (come documentava nel 2010 la stessa Banca mondiale), con un aumento 
medio del pil del 7,5% annuo, e registrava «alti indicatori di sviluppo umano» 
tra cui l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e, per il 
46%, a quella di livello universitario. Nonostante le disparità, il tenore di 
vita della popolazione libica era notevolmente più alto di quello degli altri 
paesi africani. Lo testimoniava il fatto che trovavano lavoro in Libia oltre 
due milioni di immigrati, per lo più africani.
Vengono colpiti dalla guerra, quindi, anche gli immigrati dall’Africa 
subsahariana che, perseguitati con l’accusa di aver collaborato con Gheddafi, 
sono imprigionati o costretti a fuggire. Molti, spinti dalla disperazione, 
tentano la traversata del Mediterraneo verso l’Europa. Quelli che vi perdono la 
vita sono anch’essi vittime della guerra con cui la Nato ha demolito lo Stato 
libico.

LE VERE RAGIONI DELLA GUERRA ALLA LIBIA

Molteplici fattori rendono la Libia importante agli occhi degli Stati Uniti e 
delle potenze europee. Le riserve petrolifere – le maggiori dell’Africa, 
preziose per l’alta qualità e il basso costo di estrazione – e quelle di gas 
naturale.
Dopo che Washington abolisce nel 2003 le sanzioni in cambio dell’impegno di 
Gheddafi a non produrre armi di distruzione di massa, le grandi compagnie 
petrolifere statunitensi ed europee affluiscono in Libia con grandi 
aspettative, rimanendo però deluse. Il governo libico concede le licenze di 
sfruttamento alle compagnie straniere che lasciano alla compagnia statale 
libica (National Oil Corporation of Libya, Noc) la percentuale più alta del 
petrolio estratto: data la forte competizione, essa arriva a circa il 90%. Per 
di più la Noc richiede, nei contratti, che le compagnie straniere assumano 
personale libico anche in ruoli dirigenti. Abbattendo lo Stato libico, gli 
Stati uniti e le potenze europee mirano a impadronirsi di fatto della sua 
ricchezza energetica.
Oltre che all’oro nero, mirano all’oro bianco libico: l’immensa riserva di 
acqua fossile della falda nubiana (stimata in 150mila km3), che si estende 
sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità di sviluppo essa offra lo 
ha dimostrato il governo libico, costruendo una rete di acquedotti lunga 4mila 
km per trasportare l’acqua, estratta in profondità da 1300 pozzi nel deserto, 
fino alle città costiere e all’oasi al Khufrah, rendendo fertili terre 
desertiche. Su queste riserve idriche, in prospettiva più preziose di quelle 
petrolifere, vogliono mettere le mani – attraverso le privatizzazioni promosse 
dal Fmi – le multinazionali dell’acqua, che controllano quasi la metà del 
mercato mondiale dell’acqua privatizzata.
Nel mirino Usa/Nato ci sono anche i fondi sovrani, i capitali che lo Stato 
libico ha investito all’estero. I fondi sovrani gestiti dalla Libyan Investment 
Authority (Lia) sono stimati in circa 70 miliardi di dollari, che salgono a 
oltre 150 se si includono gli investimenti esteri della Banca centrale e di 
altri organismi. Da quando viene costituita nel 2006, la Lia effettua in cinque 
anni investimenti in oltre cento società nordafricane, asiatiche, europee, 
nordamericane e sudamericane: holding, banche, immobiliari, industrie, 
compagnie petrolifere e altre. Tali fondi vengono «congelati», ossia 
sequestrati, dagli Stati Uniti e dalle maggiori potenze europee.
L’assalto ai fondi sovrani libici ha un impatto particolarmente forte in 
Africa. Qui la Libyan Arab African Investment Company aveva effettuato 
investimenti in oltre 25 paesi, 22 dei quali nell’Africa subsahariana, 
programmando di accrescerli soprattuttto nei settori minerario, manifatturiero, 
turistico e in quello delle telecomunicazioni. Gli investimenti libici erano 
stati decisivi nella realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni 
della Rascom (Regional African Satellite Communications Organization) che, 
entrato in orbita nell’agosto 2010, permetteva ai paesi africani di cominciare 
a rendersi indipendenti dalle reti satellitari statunitensi ed europee, con un 
risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.
Ancora più importanti erano stati gli investimenti libici nella realizzazione 
dei tre organismi finanziari varati dall’Unione africana: la Banca africana di 
investimento, con sede a Tripoli; il Fondo monetario africano, con sede a 
Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria). Lo 
sviluppo di tali organismi avrebbe potuto permettere ai paesi africani di 
sottrarsi almeno in parte al controllo della Banca mondiale e del Fondo 
monetario internazionale, strumenti del dominio neocoloniale, indebolendo il 
dollaro e il franco Cfa (la moneta che sono costretti a usare 14 paesi 
africani, ex-colonie francesi). Il congelamento dei fondi libici assesta un 
colpo mortale all’intero progetto.
Le mail di Hillary Clinton (segretaria di stato dell’amministrazione Obama nel 
2011), venute alla luce successivamente nel 2016, confermano quale fosse il 
vero scopo della guerra: bloccare il piano di Gheddafi di usare i fondi sovrani 
libici per creare organismi finanziari autonomi dell’Unione africana e una 
moneta africana in alternativa al dollaro e al franco Cfa.
Importante, per gli Usa e la Nato, la stessa posizione geografica della Libia. 
all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Va ricordato che re 
Idris, nel 1953, aveva concesso agli inglesi l’uso di basi aeree, navali e 
terrestri in Cirenaica e Tripolitania. Un accordo analogo era stato concluso 
nel 1954 con gli Stati Uniti, che avevano ottenuto l’uso della base aerea di 
Wheelus Field alle porte di Tripoli. Essa era divenuta la principale base aerea 
statunitense nel Mediterraneo. Abolita la monarchia, la Repubblica araba libica 
aveva costretto nel 1970 le forze statunitensi e britanniche a evacuare le basi 
militari e, l'anno seguente, aveva nazionalizzato le proprietà della British 
Petroleum e costretto le altre compagnie a versare allo Stato libico quote 
molto più alte dei profitti.


BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (PARTE 9)

Manlio Dinucci

L’INIZIO DELLA GUERRA CONTRO LA SIRIA

Nell’ottobre 2012 il Consiglio Atlantico denuncia «gli atti aggressivi del 
regime siriano al confine sudorientale della Nato», pronto a far scattare 
l’articolo 5 che impegna ad assistere con la forza armata il paese membro 
«attaccato», la Turchia. Ma è già in atto il «non-articolo 5» – introdotto 
durante la guerra alla Jugolavia e applicato contro l’Afghanistan e la Libia – 
che autorizza operazioni non previste dall’articolo 5, al di fuori del 
territorio dell’Alleanza.

Quella in Siria inizia nel 2011. Eloquenti sono le immagini degli edifici di 
Damasco e Aleppo devastati con potentissimi esplosivi: opera non di semplici 
ribelli, ma di professionisti della guerra infiltrati. Circa 200 specialisti 
delle forze d’élite britanniche Sas e Sbs – riporta il Daily Star – operano in 
Siria, insieme a unità statunitensi e francesi.

La forza d’urto è costituita da una raccogliticcia armata di gruppi islamici 
(fino a poco prima bollati da Washington come terroristi) provenienti da 
Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri paesi. Nel gruppo di Abu Omar 
al-Chechen – riferisce l’inviato del Guardian ad Aleppo – gli ordini vengono 
dati in arabo, ma devono essere tradotti in ceceno, tagico, turco, dialetto 
saudita, urdu, francese e altre lingue. Forniti di passaporti falsi (specialità 
Cia), i combattenti affluiscono nelle province turche di Adana e Hatai, 
confinante con la Siria, dove la Cia ha aperto centri di formazione militare. 
Le armi arrivano soprattutto via Arabia Saudita e Qatar che, come in Libia, 
fornisce anche forze speciali.

Il comando delle operazioni è a bordo di navi Nato nel porto di Alessandretta. 
A Istanbul viene aperto un centro di propaganda dove dissidenti siriani, 
formati dal Dipartimento di stato Usa, confezionano le notizie e i video che 
vengono diffusi tramite reti satellitari. La guerra Nato contro la Siria è 
dunque già in atto, con la motivazione ufficiale di aiutare il paese a 
liberarsi dal regime di Assad. Come in Libia, si è infilato un cuneo nelle 
fratture interne per far crollare lo Stato, strumentalizzando la tragedia delle 
popolazioni travolte.

Una delle ragioni per cui si vuole colpire e occupare la Siria è il fatto che 
Siria, Iran e Iraq hanno firmato nel luglio 2011 un accordo per un gasdotto che 
dovrebbe collegare il giacimento iraniano di South Pars, il maggiore del mondo, 
alla Siria e quindi al Mediterraneo. La Siria, dove è stato scoperto un altro 
grosso giacimento presso Homs, potrebbe divenire in tal modo un hub di corridoi 
energetici alternativi a quelli attraverso la Turchia e altri percorsi, 
controllati dalle compagnie statunitensi ed europee.


BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (PARTE 10)

Manlio Dinucci

IL COLPO DI STATO IN UCRAINA

L’operazione condotta dalla Nato in Ucraina inizia quando nel 1991, dopo il 
Patto di Varsavia, si disgrega anche l’Unione Sovietica di cui essa faceva 
parte. Gli Stati Uniti e gli alleati europei si muovono subito per trarre il 
massimo vantaggio dalla nuova situazione geopolitica.

L’Ucraina – il cui territorio di oltre 600mila km2 fa da cuscinetto tra Nato e 
Russia ed è attraversato dai corridoi energetici tra Russia e Ue – non entra 
nella Nato, come fanno altri paesi dell’ex Urss ed ex Patto di Varsavia. Entra 
però a far parte del «Consiglio di cooperazione nord-atlantica» e, nel 1994, 
della «Partnership per la pace», contribuendo alle operazioni di «peacekeeping» 
nei Balcani.

Nel 2002 viene adottato il «Piano di azione Nato-Ucraina» e il presidente 
Kuchma annuncia l’intenzione di aderire alla Nato. Nel 2005, sulla scia della 
«rivoluzione arancione» (orchestrata e finanziata agli Usa e dalle potenze 
europee), il presidente Yushchenko viene invitato al summit Nato a Bruxelles.

Subito dopo viene lanciato un «dialogo intensificato sull’aspirazione 
dell’Ucraina a divenire membro della Nato» e nel 2008 il summit di Bucarest dà 
luce verde al suo ingresso. Nel 2009 Kiev firma un accordo che permette il 
transito terrestre in Ucraina di rifornimenti per le forze Nato in Afghanistan. 
Ormai l’adesione alla Nato sembra certa ma, nel 2010, il neoeletto presidente 
Yanukovych annuncia che, pur continuando la cooperazione, l’adesione alla Nato 
non è nell’agenda del suo governo.

Nel frattempo però la Nato tesse una rete di legami all’interno delle forze 
armate ucraine. Alti ufficiali partecipano per anni a corsi del Nato Defense 
College a Roma e a Oberammergau (Germania), su temi riguardanti l’integrazione 
delle forze armate ucraine con quelle Nato. Nello stesso quadro si inserisce 
l’istituzione, presso l’Accademia militare ucraina, di una nuova «facoltà 
multinazionale» con docenti Nato.

Notevolmente sviluppata anche la cooperazione tecnico-scientifica nel campo 
degli armamenti per facilitare, attraverso una maggiore interoperabilità, la 
partecipazione delle forze armate ucraine a «operazioni congiunte per la pace» 
a guida Nato.

Inoltre, dato che «molti ucraini mancano di informazioni sul ruolo e gli scopi 
dell’Alleanza e conservano nella propria mente sorpassati stereotipi della 
guerra fredda», la Nato istituisce a Kiev un Centro di informazione che 
organizza incontri e seminari e anche visite di «rappresentanti della società 
civile» al quartier generale di Bruxelles.

E poiché non esiste solo ciò che si vede, è evidente che la Nato costruisce una 
rete di collegamenti negli ambienti militari e civili molto più estesa di 
quella che appare.

Sotto regia Usa/Nato, attraverso la Cia e altri servizi segreti vengono per 
anni reclutati, finanziati, addestrati e armati militanti neonazisti. Una 
documentazione fotografica mostra giovani militanti neonazisti ucraini di 
Uno-Unso addestrati nel 2006 in Estonia da istruttori Nato, che insegnano loro 
tecniche di combattimento urbano ed uso di esplosivi per sabotaggi e attentati.

Lo stesso metodo usato dalla Nato, durante la guerra fredda, per formare la 
struttura paramilitare segreta «Gladio». Attiva anche in Italia dove, a Camp 
Darby e in altre basi, vengono addestrati gruppi neofascisti preparandoli ad 
attentati e a un eventuale colpo di stato.

È questa struttura paramilitare che entra in azione a piazza Maidan, 
trasformandola in campo di battaglia: mentre gruppi armati danno l’assalto ai 
palazzi di governo, «ignoti» cecchini sparano con gli stessi fucili di 
precisione sia sui dimostranti che sui poliziotti (quasi tutti colpiti alla 
testa).

Il 20 febbraio 2014 il segretario generale della Nato si rivolge, con tono di 
comando, alle forze armate ucraine, avvertendole di «restare neutrali», pena 
«gravi conseguenze negative per le nostre relazioni». Abbandonato dai vertici 
delle forze armate e da gran parte dell’apparato governativo, il presidente 
Viktor Yanukovych è costretto alla fuga.

Andriy Parubiy – cofondatore del partito nazionalsociale, costituito nel 1991 
sul modello del Partito nazionalsocialista di Adolf Hitler, e capo delle 
formazioni paramilitari neonaziste – viene messo a capo del «Consiglio di 
difesa e sicurezza nazionale».

Il putsch di Piazza Maidan è accompagnato da una campagna persecutoria, diretta 
in particolare contro il Partito comunista e i sindacati, analoga a quelle che 
segnarono l’avvento del fascismo in Italia e del nazismo in Germania. Sedi di 
partito distrutte, dirigenti linciati, giornalisti seviziati e assassinati; 
attivisti bruciati vivi nella Camera del Lavoro di Odessa; inermi abitanti 
dell’Ucraina orientale di origine russa massacrati a Mariupol, bombardati col 
fosforo bianco a Slaviansk, Lugansk, Donetsk.

Un vero e proprio colpo di stato sotto regia Usa/Nato, col fine strategico di 
provocare in Europa una nuova guerra fredda per colpire e isolare la Russia e 
rafforzare, allo stesso tempo, l’influenza e la presenza militare degli Stati 
uniti in Europa.

Di fronte al colpo di stato e all’offensiva contro i russi di Ucraina, il 
Consiglio supremo della Repubblica autonoma di Crimea – territorio russo 
passato all’Ucraina in periodo sovietico nel 1954 – vota la secessione da Kiev 
e la richiesta di annessione alla Federazione russa, decisione che viene 
confermata con il 97% dei voti favorevoli da un referendum popolare. Il 18 
marzo 2014 V. Putin firma il trattato di adesione della Crimea alla Federazione 
russa con lo status di repubblica autonoma.

La Russia viene accusata, a questo punto, dalla Nato e dalla Ue di aver aver 
annesso illegalmente la Crimea e sottoposta a sanzioni.


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