Sul 2 febbraio a Bergamo Daniele Belotti non vuol venire alle celebrazioni ufficiali dell’unità d’Italia perché “tifa Atalanta e non Italia”. Non ha senso criticarlo sul “senso di responsabilità”, come fa invece il segretario regionale del PD Maurizio Martina. Così lo indica come un “ragazzo ribelle”, quando in realtà è uno degli esponenti di punta di un partito iper-autoritario. Il “chiamarsi fuori” di Daniele Belotti non è dubbio esistenziale, ma è parte integrante della strategia leghista. Da sempre, peraltro, Belotti promuove un discorso in cui vengono appositamente rimosse le differenze tra tifo calcistico e identità nazionale. Il tifo calcistico, lo sappiamo, è una passione viscerale. Si può cambiare un Paese e la fidanzata (o il fidanzato), ma la squadra di calcio no. I Maroni della tessera del tifoso e il capitalismo dell’Olimpo del calcio vogliono invece trasformare il tifo calcistico in un “diversivo” come tutti gli altri, privo di sentimenti e di identità. Un “Paese”, invece, è una realtà storica ma anche una costruzione identitaria. Per me rappresenta un “terreno di battaglia” politico e culturale. L’Italia a cui faccio riferimento è quella della Resistenza al nazifascismo, delle lotte dei lavoratori e delle suffragette, del ’68, del movimento di Genova del 2001. Lo dico apposta con retorica, visto che ogni evento storico ha le sue intime contraddizioni. Si tratta di lotte che avevano in Italia un epicentro significativo, ma che guardavano al Mondo nella sua interezza e che trovavano nelle città il loro radicamento. Sul piano culturale guardo all’Italia della creatività popolare dispersa in migliaia di rivoli territoriali, fatta di idee, guizzi, socialità e cooperazione. E’ questa la forza dell’Italia. Per esempio, la straordinarietà della gastronomia italiana sta nelle miriadi di diversità locali e nel loro continuo mischiarsi con stimoli provenienti da “altrove”. Sul piano sociale, troppo facile, mi riferisco all’Italia della solidarietà, quella dell’aiuto di massa a chi è colpito da calamità naturali, quella delle carovane nelle zone di guerra, quella del lavoro sociale quotidiano. Quando invece si vuole costruire una nazione “viscerale”, una nazione la cui identità si base sull’essere “altro” dai portatori di diversità, allora entriamo nel “discorso sciovinista” e, con riferimento al caso italiano, di tradizione fascista. Questo vale a prescindere dai confini a cui si inneggia: il discorso è identico sia che si dica “dalle Alpi alla Sicilia”, sia che si proclami furbescamente “dalle Alpi al fiume Po”. Io il 2 febbraio sarò ben presente alle celebrazioni dell’unità d’Italia proprio perché ci sono tanti cittadini bergamaschi che non hanno alcuna passione viscerale per “la nazione”, ma che vogliono stare dentro quel “terreno di battaglia” politico e culturale che l’Italia ha rappresentato e ancora oggi rappresenta. Ascolterò Napolitano pensando che non lo invidio proprio: è Presidente della Repubblica in un periodo in cui governano insieme, e da soli, gli sciovinisti padani e il principale artefice del berlusconismo (cioè Berlusconi). Ascolterò a fatica, ma mi tocca, anche i discorsi di Tentorio e Pirovano, che sono il riflesso bergamasco di quella coalizione governativa. Pietro Vertova, consigliere comunale indipendente nei Verdi
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