Cerco ancora di fare la vestale del fuoco rekombinant, passando qualche appunto occasionale.
Una serie di eventi, dal caso Geoffroy alla recente ripubblicazione di "Porci con le ali" di Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera, mi spingono a tornare sul tema del disagio mentale.
Con preghiera, ancora una volta, di non imbarcarsi nella lettura se si ha di meglio da fare.
(Ennesima "excusatio non petita", d'accordo, ma poi mi si dice che scrivo cose troppo lunghe).


Marco Lombardo Radice, il coautore di "Porci con le ali", non era una persona qualunque. Proveniva da una famiglia dell'aristocrazia rossa e aveva studiato in un celebre liceo romano in cui venivano allevati rampolli spesso destinati a un futuro "istituzionale".
Non a caso, dopo il successo "imbarazzante" del libro, laureato in medicina, sceglie un lavoro di ricerca universitario. Chi abbia visto "Il grande cocomero" di Francesca Archibugi, fatichera' a credere che lo psichiatra degli adolescenti descritto dal film sia proprio l'autore del diario sessuale adolescenziale pubblicato originariamente da Savelli. Ancor meno puo' credere che il protagonista del film sia stato uno dei dirigenti del temuto comitato centrale di Lotta Continua.


Lo iato e' in realta' meno clamoroso di quanto si possa pensare. Sia perche' Marco indirizza molto del suo lavoro di ricerca, quello precedente all'assegnazione presso la sede di Neuropsichiatria Infantile, ai problemi della sessualita' degli adolescenti, sia perche' la scelta di fare lo psichiatra degli adolescenti e' piu' "politica" di quanto Archibugi abbia dato a intendere nel suo film, peraltro assai bello.

Si puo' ricorrere ad una serie di saggi e interventi di Lombardo Radice, curati da Marino Sinibaldi nel libro "Una concretissima utopia" (Linea D'ombra, 1991) per avere un'introduzione chiara ai problemi con i quali Marco dovette misurarsi nel periodo di attivita' psichiatrica "istituzionale".
Sul piano storico sono gli anni del riflusso e della crisi dei movimenti, sul piano politico-amministrativo sono gli anni dell'avvio delle privatizzazioni, della ricerca di forme organizzative "snelle", della progressiva riduzione dei servizi pubblici. Quelli che Guattari chiamera' "gli anni d'inverno", il decennio 1980 - 1990.


Io non sono del tutto d'accordo con chi sostiene che " la meglio gioventu' " degli anni delle proteste, quando non e' stata incarcerata e' stata fatalmente "sussunta". Mi pare invece che alcuni abbiano sperato, sostanzialmente in buona fede, di agire politicamente all'interno delle istituzioni. Sicuramente questo e' stato il caso di Marco Lombardo Radice. Una lettura ingenua puo' suggerire che l'uomo che nel 77 sotto lo pseudonimo di "Veltro" sbeffeggiava dalle pagine di "Lotta Continua" lo psichiatra Coda - condannato per abusi nei confronti dei ricoverati (e fatto oggetto di un attentato dei SAP) - sia in seguito diventato un ingranaggio del meccanismo contro cui aveva originariamente combattuto. In realta' le pagine raccolte da Sinibaldi permettono di cogliere la tensione critica con cui Lombardo Radice ha vissuto il suo ruolo "istituzionale".

Quello che adesso voglio sottolineare e' pero' che Marco Lombardo Radice si trova ad ammettere sul campo che le interpretazioni frettolose della retorica di molti basagliani dell'ultima ora sono ingenue e spesso demagogiche. Nel suo lavoro con gli adolescenti ricorre responsabilmente a interventi di contenzione o alla somministra farmaci. Ma in nessun caso questo avviene in modo automatico, burocratico. C'e' una profonda riflessione su ogni operazione di questo tipo. In un importante saggio intitolato: "Ragione e passione: cura e costrizione nel trattamento dei minori", scriveva:

"Un primo punto e' che la gestione non violenta del caso "serio" richiede di necessita' un aggancio terapeutico, quindi libero, con il paziente, che si fonda su una paziente decodifica del messaggio contenuto nel suo comportamento. Ma per fare questo occorre accettare il suo punto di vista, occorre dare credito alla sua percezione psicotica della realta' circostante e ricercare il nucleo di verita' che contiene e che la costruzione psicotica occulta e deforma".

Poco dopo:

"Da un punto di vista umano e terapeutico cio' che conta veramente e' dunque la capacita' di 'sentire' correttamente la richiesta profonda del paziente e di rispondere ad essa o - ma e' poi lo stesso - la capacita' di sentire quali interventi vengano invece suggeriti dall'ansia, dall'aggressivita' dal panico dell'operatore stesso".

E, piu' sotto:

"L'assenza di inganno e mistificazione e' gia' terapeutica ed e' comunque la base su cui progressivamente ridurre, fino ad eliminare, i casi in cui non si e' in grado di fornire una risposta vera ai bisogni del paziente. A nostra esperienza, se il lavoro 'interno' dell'operatore e' stato svolto correttamente, nessun atto sara', o sara' sentito, violento".

Ora, se paragoniamo queste osservazioni al poco che trapela sul caso Geoffroy c'e' da raggelare. Qualcuno dubita seriamente della diagnosi di schizofrenia emessa nei suoi confronti. Ed effettivamente, a quel che si riesce a capire, Geoffroy ha poco dello schizofrenico. L'io di Geoffroy appare fin troppo compatto, l'eloquio non suggerisce forme di dissociazione. Lo stesso Galimberti nel suo articolo di prima pagina su "La Repubblica" parla piu' spesso di "follia paranoica" che di schizofrenia. A sentire Geoffroy, tra l'altro, pare non sia stato sottoposto a visite specialistiche a colloqui clinici o altro. La diagnosi di schizofrenia, almeno a suo dire, non si sa bene da dove venga.

Che poi Geoffroy percepisse la TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) come una violenza nei suoi confronti e' fin troppo evidente. Il medico killer afferma di aver piu' volte diffidato i medici del San Paolo: "dal compiere qualsiasi atto sulla mia persona". Ma le TSO effettuate nei suoi confronti sono due, qualche giornale parla di tre interventi di contenzione. Come dichiara Geoffrey nel memoriale consegnato qualche giorno prima dell'omicidio al "mattino" di Salerno:

«Il giorno 29 novembre 2000, alle ore ventitrč, mentre dormivo nella mia abitazione di Milano, corso Lodi 90, i vigili urbani insieme con la dottoressa Teresa Ruggero mi notificarono il trattamento sanitario obbligatorio nei miei confronti redatto dal dott. Bignamini che non avevo mai conosciuto e che non mi aveva mai visitato. Come fece ad accertare la mia psicopatologia?».

Marco Lombardo Radice avrebbe probabilmente giudicato questi interventi come inequivocabilmente "violenti" e forse come "suggeriti dall'ansia, dall'aggressivita' dal panico dell'operatore stesso". A quel che pare qui non vi e' stato nessun tentativo, nei confronti di Geoffroy di "dare credito alla sua percezione psicotica della realta' circostante e ricercare il nucleo di verita' che contiene e che la costruzione psicotica occulta e deforma".

Del resto, vale notarlo, la morte di Marco Lombardo Radice conserva un elemento di mistero. E' facile supporre che in un modo o nell'altro le contraddizioni del suo ruolo siano progressivamente esplose, a misura del venire meno della disponibilita' delle istituzioni nei confronti del suo approccio.
Un approccio che difficilmente avrebbe potuto adeguarsi agli "standard di qualita' " diffusi nelle metodologie terapeutiche attuali.
Al punto che affermava, consapevole dell'eresia: "In tanti casi che ho visto, l'unico aspetto del trattamento significativamente correlato con il risultato e' la quantita' di affetto, attenzione, 'cura' e infine tempo che il paziente ha ricevuto".


Marco avvertiva fortemente il peso di una progressiva emarginazione, per esempio quando scriveva di una:

"(...) costante sensazione che un singolo errore (e in questa professione sono inevitabili) possa far crollare il castello di carte, che il clima che ti circonda sia: ' quel Lombardo Radice e' strano, matto e rompicoglioni; pero' e' bravo ', e che basti veramente poco ad obliterare il secondo termine del discorso e farti cadere indifeso nel primo".

In un documento che rappresenta sotto molti profili il "testamento" politico e psichiatrico di Marco Lombardo Radice, intitolato "il raccoglitore nella segale", possiamo cogliere che tipo di "intesa" Marco tentasse di stabilire con il reparto:

"Nel confronto con queste istanze mi sono trovato a fare ricorso mentalmente molto piu' a Foucault che a Marx. In queste istituzioni si tocca con mano l'esistenza di una microfisica del potere e di una scala dell'oppressione in cui, ad esempio, l'infermiere sfruttato e oppresso in un'ottica di classe puo' porsi a sua volta, come oppressore sull'anello piu' basso della catena, il paziente. E Foucault e' forse una razionalizzazione adulta di una attenzione per gli 'ultimi' dalle radici ideali e personali piu' lontane e profonde. (...)
Trovando su questa linea una curiosa e salda alleanza con la significativa componente del personale legata all' Autonomia Operaia. Ho l'impressione di essere stato fortunato, di essermi cioe' incontrato con gli autonomi piu' intelligenti e sensibili di tutto il policlinico; certo e' che nei momenti piu' drammatici ci siamo sempre trovati d'accordo. Cosi' ad esempio di fronte alla possibilita'/necessita' periodicamente evocata, di un'azione incisiva per ottenere miglioramenti strutturali assolutamente indispensabili, ad esempio uno sciopero che imponesse una immediata chiusura del reparto, abbiamo sempre concondermente finito con il soprassedere di fronte alla domanda: ' E di questi ragazzini che ne facciamo ?'.
Su come questi autonomi in gamba facciano convivere la prassi militante piu' tradizionalmente politica con una partecipazione appassionata al lavoro terapeutico, voglio dare un solo esempio: lungo la linea del ' lavorare meno lavorare tutti ' gli autonomi, dopo essere riusciti a far passare i cosiddetti 'turnetti', si oppongono fermamente agli straordinari e personalmente non ne fanno neanche cinque minuti. Cosi' anche nel mio reparto: ma dopo aver firmato puntualmente l'uscita, o nei giorni di riposo, piu' di un'infermiera si porta a casa o al cinema qualche ragazzino".


Fa riflettere che lo scrittore, ex-magistrato e parlamentare Salvatore Mannuzzu abbia dipinto in un articolo di qualche anno fa il protagonista del film della Archibugi come una "persona per bene". Ricordo perfettamente la mattina in cui la ex-compagna di Marco mi espresse con insuperabile ironia la sua completa indifferenza nei confronti di questa retorica da buone famiglie della sinistra. Retorica che ha avuto l'effetto di banalizzare il problema, un "finire in gloria" che ha trasformato Marco Lombardo Radice in un eroe per girotondini.
Torniamo dunque, in questi giorni, a riflettere sull'opera di uno studioso di psicologia clinica che in Italia e' almeno riuscito a lasciare il segno di qualcosa, come scriveva nel suo ultimo testo : " (che) travalichi la disperazione dell'oggi; che tolga alla perdita dell'innocenza quantomeno il sapore della non-umanita' ".


Un caro saluto
Rattus


___________________________________________


http://rekombinant.org
http://rekombinant.org/media-activism

Rispondere a