Il tifoso non serve più al pallone
lanfranco caminiti 

Ecco, finalmente è accaduto. La guerra tra tifoserie, lo scontro con le
forze dell'ordine ha conquistato il posto cui ambisce da sempre: il
campo di "gioco". Dai margini dello sguardo, dalla periferia
dell'interesse, dagli spalti, da dietro le protezioni in acciaio e
plexiglass, dalle stazioni di servizio saccheggiate di corsa, dagli
autobus incolonnati e marcati stretti, dalle piazzole antistanti lo
stadio, dalla coda della notizia sportiva, l'ultrà è finalmente al
centro, il rettangolo verde della sfida. Il giovane con il passamontagna
che, dopo aver inseguito e menato carabinieri e poliziotti, si rivolge
verso le scalinate battendo le mani, incitando una ola, un accrescere
dell'entusiasmo, uno sventolar di bandiere e striscioni è il "nuovo
gladiatore": sta al posto proprio, il centro del campo, nuovo "colosseo"
domenicale. Se potesse, forse solleverebbe per i capelli la testa del
suo "nemico" e chiederebbe al pubblico cosa farne, mozzarla o 
risparmiarla. Se potesse. E gli risponderebbero: sbirri bastardi. Come
si scrive sui muri, sui volantini, sui siti internet delle tifoserie.
Pollice verso. Ciro, marittimo di 21 anni, di Casavatore, Napoli, è il
nuovo Masaniello, il nuovo sanfedista di piazza del Mercato, il nuovo
"nemico pubblico numero uno". Ciro, marittimo, Casavatore, 21 anni. Già.
Il resto - il calcio - non conta più niente, è altrove.
Già, ma che è calcio, questo?
D'altronde, chi sono ormai gli unici, i veri "portatori" della squadra,
dell'appartenenza, della passione cieca e militante? I calciatori sono
dei mercenari, giocano in una squadra verso cui non hanno affetti, se ne
vanno quando l'offerta è migliore; i presidenti comprano squadre come
catene di supermercati, vendono, spostano, il business è tutto; gli
staff tecnici, manager e sportivi, vanno dove è più conveniente; i
procuratori gestiscono tutto in un vortice di cifre e di potere
pazzesco: ma che è calcio, questo? 
Chi rimane legato per sempre ai "colori"? Loro, gli ultras, combattenti
d'un mondo che non c'è più, combattenti d'un mondo che vuole resistere,
giapponesi di un imperatore che ha già firmato l'armistizio, finalmente
unici depositari della bandiera, della maglia: il resto conta meno di
niente. Come operai di una fabbrica metalmeccanica che ha già dislocato
la produzione o ha deciso che conviene di più diventare una finanziaria,
e occupano gli stabilimenti e si incatenano alle presse, e fanno
manifestazioni e a botte con la polizia, si sdraiano sui binari: a
volte, ci scappa il morto, di qua o di là. Poveri morti, per nulla. Ora,
sono al centro del campo, il posto che gli spetta, che gli compete. Che
si sono guadagnato.
Quanto più diventa "per bene" il mondo del tifo, negli studi televisivi,
dove si fanno le battutine e i giochini, si è tutti, in fondo,
compagnoni, ci sono le veline e tutto si stempera, tanto più diventa
"per male", "delinguente" il mondo degli ultras. Agli uni, ai per bene,
il mondo virtuale, fatto di telecamere a strafottere, moviole, sciocche
ripetizioni delle partite e delle azioni di gioco [ma che è calcio,
questo?], agli altri, il sangue e il sudore che è proprio dello sport.
Non c'è il pallone? E chi se ne frega? Rimane il sangue e il sudore.
La distanza siderale tra il calcio - l'organizzazione del gioco del
calcio - e la passione sportiva s'è ormai consumata tutta. Non nello
stadio di Avellino-Napoli, ma già prima: l'inferocirsi dei comportamenti
ultras è solo la manifestazione più evidente di questa distanza. Tanto
più perché espressa in nome di una passione ormai "antica", superata, il
rapporto "carnale" tra squadra e tifoso. Questo rapporto carnale s'è
ormai consumato tutto in nome della virtualità, del gioco televisivo,
delle chiacchiere, del satellite, degli spot pubblicitari, dello
schermo: lo stadio è solo una necessità. Il tifoso è un residuo - meglio
starebbe a casa, in una poltroncina - e non una necessità.
E' evidente, per il tifoso, la percezione di questo passaggio: la sua è
una tragica e disperata battaglia. Proprio nel senso d'una battaglia.
Già persa, già giocata senza che neppure potesse fare alcunché. Non si
adegua, non può adeguarsi a non contare nulla: si è sempre illuso, è
stato illuso, nel mondo "antico" che la sua passione contasse, quando si
andava fuori per pareggiare, se andava bene, e si giocava in casa per
vincere, sospinti dall'amore dei tifosi, dagli incitamenti, dalle urla,
dalla "pressione" su arbitri e avversari. Oggi, se vuoi andare avanti
devi giocare ovunque allo stesso modo, i 2 sulla schedina aumentano, non
solo in Champions league, ma pure tra le partite di C2: il fattore-campo
era forse una realtà, adesso è solo un ricordo.
Le squadre diventeranno delle "All Stars", come le merengue del Real
Madrid: fanno tic-toc-tic-toc, fanno il torello, fanno melina, fanno
belle azioni, triangolazioni da manuale, i fondamentali come negli
allenamenti, non mettono mai la gamba, sembrano i "globetrotters" del
basket di tanti anni fa, i migliori giocatori del mondo che facevano
quel che volevano con la palla: poi, bastava una squadretta a fargli il
culo, mettendoci sangue e sudore. La gente forse si diverte: quelli per
bene, sì, e sono la maggioranza, la stragrande maggioranza, sono come
quelli che stanno davanti la televisione, e poi, infatti, che ci vai a
fare allo stadio, che si vede pure male? Forse l'ideale è dotare ogni
poltroncina allo stadio di una televisione, come si fa nelle
trasmissioni. Ma il calcio è questo ormai,  televisione,
tic-toc-tic-toc: dovranno trovare sempre più tempi morti per gli spot -
come per il football americano, si potrebbe fare per ogni squadra un
tempo in difesa e un tempo in attacco e poi chiamare il time-out come
per la pallavolo - e anche per la ricostruzione in 3D in tempo quasi
reale, oppure in carne e ossa in tempo quasi-reale. Ma che è calcio,
questo?
Il calcio è l'unico "luogo" rimasto dove si accendono ancora le passioni
civili, dove si è faziosi di padre in figlio, dove si disprezza
l'avversario a prescindere, dove qualsiasi cosa faccia o dica il
"nemico" è contro di te, un complotto planetario di cui si è vittime
innocenti, dove ci sono i "padroni", dove i "comunisti ancora mangiano i
bambini" e i "democristi vincono perché ci sono i preti e le monache",
dove ci sono ancora le "sezioni", che attraversa classi, età, generi,
composizione sociale, paesini e metropoli. Il calcio è perennemente
fermo al clima civile del 1948, e i giornali sembrano fermi al 1948 e i
loro titoloni pure. Tutta fuffa, tutto vuoto spinto, tutto "ideologia".
E ci si meraviglia che intervenga il governo? Lo scollamento, la
distanza, il fossato tra paese reale e paese virtuale qui è forte, come
altrove. L'irruzione dei corpi reali, dell'"inveramento" dell'ideologia
in scontri e battaglie da parte dei tifosi è una scocciatura, una
deformazione, un fastidio: che si tolgano di mezzo, via i "delinguenti",
ma che, non hanno capito che la "democrazia" è un'altra cosa, che è
finita la "guerra civile" e questa è solo ammoina?
Sta succedendo al mondo del pallone italiano, europeo, quello che è
successo al baseball americano con l'irruzione massiccia della
televisione tanti e tanti anni fa: quello d'oggi è un "altro" gioco. E
il rimpianto per "quel" baseball diventa il rimpianto per un'America che
non c'è più, per un mondo che non c'è più, foto bianco e nero, the hall
of fame, campioni e divine - volete mettere Marilyn con una velina?
Tutto passa, certo. Ma il rimpianto rimane, il lutto rimane: c'è chi lo
elabora in libri, in film, in pensieri. Anche belli, anche profondi. E
c'è chi mena le mani.
Chiudere gli stadi? E magari alcuni trasformarli in fortezze dove
infilare extracomunitari e immigrati, indesiderabili, e massacrarli,
come accadde a Bari? E a che servirebbe? Come se gli ultras non
macinassero giorno per giorno modi e mezzi per scontrarsi con i loro
nemici, a prescindere dalla partita, per vendicarsi di qualcosa che
nessuno ricorda più come è cominciata, ma che importa, è proprio così
che va. Come se già adesso la maggior parte degli incidenti non
accadessero già "fuori", spesso lontano, spesso in luoghi che nulla
c'entrano. Invece che luoghi deputati avremmo una guerra diffusa: è già
accaduto, si moltiplicherà. Forse servirebbe davvero a quelli che il
calcio lo comandano, lo organizzano, lo gestiscono. E' questo che in
fondo è terribile: che il terremoto provocato dagli ultras servirà
proprio a quelli che loro odiano di più, a quelli che il calcio se lo
sono comprato e l'hanno fato diventare un'altra cosa. A quelli che fanno
le schedine con tredici partite virtuali su quattordici. Gli stadi si
trasformeranno in luoghi del merchandising, bar, vendite di magliette e
gadget, spettacolini, ragazzette carine con contratti atipici di lavoro,
poveracci travestiti da mascotte per sbarcare il lunario, schermi a
riproporre questa o quella partita per l'ennesima volta, piccole
disneyland del calcio, dove finalmente portare i bambini tranquilli,
come a casa. Vuoti, tutti uguali. Tutto asettico. Tic-toc-tic-toc. Il
calcio deve diventare ordinato, come tutto deve avere un "nuovo ordine".
Che tristezza. Ma che è calcio, questo?

Roma, 25 settembre 2003

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