(deutsch / italiano)
 

 L'Europa oscillante tra Carlo Magno e Altero Spinelli
 

 1) Il Trattato di Aquisgrana all'ombra di Carlo Magno / Der Vertrag von Aachen 
im Schatten von Karl Der Grosse (LINKS)
 2) Il “Manifesto di Ventotene”. Una decostruzione necessaria (di Italo Nobile 
/ RdC)
 

 

 === 1 ===
 

 AQUISGRANA: RISORGE CARLO MAGNO E MUORE L’UE (Fulvio Grimaldi, 24 gennaio 2019)
 I 5 Stelle denudano re Macron, Merkel lo riveste... sancito ad Aquisgrana, 
città dell’imperatore, sede del primo trattato De Gaulle-Adenauer, per 
l’egemonia nel continente, simbolo dalla potenza simbolica deflagrante. Sede 
anche dell’insigne Premio Carlo Magno, forse il più reazionario di tutti i 
premi... “Sacro Romano Impero di nazione tedesca” (SRINT), così Ottone I, erede 
di Carlo Magno, denominò l’aggregato di popoli dell’Europa centrale che forgiò 
in impero includendovi la Franconia Occidentale (Francia). Durò, alla fine 
simbolicamente, 1000 anni, 962-1806, quando venne beneficamente travolto dal 
laico Napoleone. Lì, però, iniziò una guerra civile europea che sarebbe durata 
quasi un secolo e mezzo e avrebbe vissuto le sue tragedie maggiori nei due 
conflitti mondiali. Condotta dalle aristocrazie feudali e poi dalle borghesie 
capitaliste, a spese di tutti noi, ha celebrato la sua rivincita, ovviamente ad 
Aquisgrana, con il trattato firmato da Merkel e Macron il 22 gennaio...
 
http://fulviogrimaldi.blogspot.com/2019/01/i-5-stelle-denudano-re-macron-merkel-lo.html
 
http://fulviogrimaldi.blogspot.com/2019/01/i-5-stelle-denudano-re-macron-merkel-lo.html
 

 AQUISGRANA. IL SECONDO TRATTATO, OSSIA L’ULTIMA CAPITOLAZIONE (di Guido 
Salerno Aletta, 23 gennaio 2019)
 ... Nei confronti della Germania, il sogno francese è presto detto: vorrebbe 
sostituire l’Italia come sub-fornitrice nel settore della manifattura 
meccanica, mantenendo invece la leadership nel campo dell’industria militare e 
conquistando quella della tecnologie avanzate: informatica ed intelligenza 
artificiale...
 
http://contropiano.org/interventi/2019/01/23/aquisgrana-il-secondo-tratto-ossia-lultimo-0111680
 
http://contropiano.org/interventi/2019/01/23/aquisgrana-il-secondo-tratto-ossia-lultimo-0111680
 

 DER VERTRAG VON AACHEN (GFP, 22/1/2019) 
 Überschattet von Protesten gegen die französische Regierung steht an diesem 
Dienstag die Unterzeichnung des deutsch-französischen "Vertrages von Aachen" 
bevor. Das Abkommen, das offiziell als ergänzende "Aktualisierung" des 
Élysée-Vertrags aus dem Jahr 1963 bezeichnet wird, sieht unter anderem eine 
Ausweitung der bilateralen Zusammenarbeit bei der Militarisierung Europas vor. 
So sollen "gemeinsame Verteidigungsprogramme" erstellt und auf eine "gemeinsame 
Kultur" der Streitkräfte beider Länder hingearbeitet werden. Hinzu kommt eine 
bilaterale Beistandsverpflichtung, die auch jenseits von NATO und EU gilt. 
Zudem sagt Paris zu, Berlin beim Kampf um einen ständigen Sitz im 
UN-Sicherheitsrat zu unterstützen. Frankreich wiederum willigt in eine 
punktuelle Schwächung seiner traditionellen Zentralstaatlichkeit ein. Parallel 
fordern Experten eine breite deutsch-französische PR für eine offensivere 
Militärpolitik - TV-Auftritte der Verteidigungsminister inklusive. Unterdessen 
versagt Berlin Paris weiterhin jedes echte Zugeständnis in Sachen 
Austeritätspolitik...
https://www.german-foreign-policy.com/news/detail/7836/ 
https://www.german-foreign-policy.com/news/detail/7836/
 

 FINALMENTE È STATO PUBBLICATO IL TRATTATO DI AQUISGRANA TRA FRANCIA E 
GERMANIA: ALCUNE CONSIDERAZIONI (di Giuseppe Masala, 18/01/2019)
 ... Alcune considerazioni sul Trattato Franco-Tedesco: 1) Strettissimo 
coordinamento sulle politiche europee... 2) Coordinamento per far ottenere un 
seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell'ONU ai crucchi... 3) 
Istituzione del Consiglio dei Ministri franco-tedesco... 4) Istituzione di un 
Consiglio degli Esperti per le politiche economiche fondate sulla 
"competitività"... 4) Strettissimo coordinamento militare in Africa... 5) 
Istituzione di un Consiglio di Difesa franco-tedesco... 6) Istituzione di 
distretti "europei" tra le regioni confinanti dove si favorirà il bilinguismo e 
si amministreranno comunemente. Inutile dire chi sia il paese economicamente 
egemone e chi farà dunque la parte del leone in queste regioni unite...
 
https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-finalmente__stato_pubblicato_il_trattato_di_aquisgrana_tra_francia_e_germania_alcune_considerazioni/82_26763/
 
https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-finalmente__stato_pubblicato_il_trattato_di_aquisgrana_tra_francia_e_germania_alcune_considerazioni/82_26763/
 


 

 === 2 ===
 

 Vedi anche:
 L’Unione Europea. Un ambiguo inizio (di Italo Nobile, 24/01 2019)
 
http://www.retedeicomunisti.org/index.php/interventi/2159-l-unione-europea-un-ambiguo-inizio
 
http://www.retedeicomunisti.org/index.php/interventi/2159-l-unione-europea-un-ambiguo-inizio
 

 

 
http://www.retedeicomunisti.org/index.php/interventi/2146-il-manifesto-di-ventotene
 
http://www.retedeicomunisti.org/index.php/interventi/2146-il-manifesto-di-ventotene
 
http://contropiano.org/documenti/2018/12/28/il-manifesto-di-ventotene-una-decostruzione-necessaria-0111016
 
http://contropiano.org/documenti/2018/12/28/il-manifesto-di-ventotene-una-decostruzione-necessaria-0111016
 

 Il “Manifesto di Ventotene”. Una decostruzione necessaria
 
di Italo Nobile (Rete dei Comunisti), 28 dicembre 2018
 

 
 Nel 1941 Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, confinati dal fascismo nell’isola 
di Ventotene, scrivono un documento per la promozione dell’unità europea che 
verrà poi pubblicato da Eugenio Colorni e viene oggi considerato uno dei testi 
fondanti dell’Unione Europea. A dire il vero, in ambito liberal-socialista 
spesso si è soliti dire che l’Europa abbia disatteso le idealità di questo 
scritto e un procedimento retorico di questo genere viene paradossalmente usato 
anche in uno dei tanti articoli polemici del “filosofo” rossobruno Diego Fusaro.
 Tale manifesto di Ventotene era stato preceduto dal progetto di Richard 
Nikolaus di Coudenhove-Kalergi che dopo la prima guerra mondiale aveva 
coinvolto numerosi uomini politici (Adenauer e poi Churchill) letterati (Rilke, 
Valery e Mann) scienziati (Einstein, Freud, Keynes) nel progetto paneuropeo, di 
ispirazione tecnocratica, che voleva l’unificazione economica e politica 
dell’Europa sotto forma di Confederazione con tutta una serie di istituti 
(Corte federale europea, un esercito europeo, una unificazione doganale 
progressiva, una moneta unica) e con una impostazione rispettosa delle diverse 
culture presenti in Europa e delle minoranze nazionali. 
 Tuttavia la natura imperialista di tale costruzione è evidente laddove Kalergi 
parla di sfruttamento a livello unificato delle colonie (confermando in parte 
la previsione di Lenin secondo cui “In regime capitalistico gli Stati Uniti 
d’Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione delle colonie”). Inoltre 
Kalergi, in altre sue opere, accennava ad un modello di uomo, ricco di spirito 
ma privo di carattere che costituisse il materiale ideale per sviluppare una 
società cosmopolita, a dimostrazione della ispirazione elitaria del suo 
progetto che voleva la contaminazione tra razze e culture non per potenziare le 
capacità degli individui ma per indirizzarle all’ossequio mediocre dell’ordine 
costruito da una minoranza di competenti (dunque una contaminazione a 
presupposto razzista).
 Per quanto riguarda il Manifesto di Ventotene c’è da dire che 
nell’introduzione si avverte il lettore dicendo che “Le circostanze anormali in 
cui tutto questo materiale fu prodotto, l’evolversi degli avvenimenti la cui 
precisa valutazione non poteva essere data dal confino, han fatto si che oggi 
si possono notare varie lacune, ed alcune parti possono anche considerarsi 
superate. Sarebbe forse bene riscrivere tutto da capo in modo da presentare 
cose completamente aggiornate. Ciò implicherebbe però un lavoro di mesi. Ma la 
vita politica italiana è stata ridotta dal fascismo come un arido deserto, e 
chi può dare un qualsiasi contributo che l’aiuti a rifiorire non deve perdere 
un minuto di tempo, specialmente nell’attuale tragica situazione. Meglio perciò 
pubblicare questi scritti quali sono, affidando agli studi successivi il 
compito di correggere e di aggiornare, meglio anche correre il rischio di dire 
qualcosa di sbagliato ma indicare agli Italiani smarriti ed incerti, almeno 
nelle sue grandi linee, la via da seguire, anziché tacere per un eccessivo 
desiderio di adeguatezza alla realtà attuale”. 
 E tuttavia pure in questa premessa la natura elitaria del progetto si avverte 
nel passo “ … indicare agli Italiani smarriti ed incerti, almeno nelle sue 
grandi linee, la via da seguire …”. Inoltre questo elitarismo si avverte anche 
nella rinuncia a formare un partito federalista e nel dire che “Il compito dei 
federalisti nelle attuali circostanze della nostra vita politica italiana deve 
essere invece quello di indicare ai partiti progressisti, i quali attirano su 
di sé le simpatie popolari, ma sono ancora più ricchi di fervore che di idee e 
propositi precisi, quali debbano effettivamente essere questi propositi e come 
ci si debba concretamente preparare a risolvere i problemi politici attuali. 
Non si tratta più di formare un partito federalista., ma di aiutare i partiti 
progressisti italiani a diventare federalisti”. 
 Nella Prefazione di Eugenio Colorni si dice che “Fu così che si fece strada, 
nella mente di alcuni, l’idea centrale che la contraddizione essenziale, 
responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che 
travagliano la nostra società, è l’esistenza di stati sovrani, geograficamente, 
economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri stati come 
concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una 
situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes”.
 Qui possiamo individuare l’illusione che la contraddizione sia essenzialmente 
culturale e politica. Non si va nella dimensione in cui questi processi 
politici si formano e si consolidano, quella dimensione dove processi di 
accumulazione capitalistica ridisegnano attorno a sé la società e i territori, 
ma ci si ferma all’apparenza e si propongono soluzioni che tengono conto solo 
dell’apparenza.
 Nella Prefazione, Colorni critica l’opzione internazionalista dicendo che 
“benché le analogie di regime interno possano facilitare i rapporti di amicizia 
e di collaborazione fra stato e stato, non è affatto detto che portino 
automaticamente e neppure progressivamente alla unificazione, finché esistano 
interessi e sentimenti collettivi legati al mantenimento di una unità chiusa 
all’interno delle frontiere”, ma si illude che l’ipotesi federalista sia un 
modo alternativo di costruire un ordine internazionale, quando esso va incontro 
agli stessi problemi e forse a problemi ancora maggiori visto che si vuole 
applicare a paesi con regimi diversi e sistemi sociali diversi (i quali, a 
detta proprio di Colorni, non sarebbero sufficienti nemmeno se fossero 
identici). 
 Colorni asserisce che “Tutti i problemi, da quello delle libertà 
costituzionali a quello della lotta di classe, da quello della pianificazione a 
quello della presa del potere e dell’uso di esso, ricevono una nuova luce se 
vengono posti partendo dalla premessa che la prima mèta da raggiungere è quella 
di un ordinamento unitario nel campo internazionale”. Egli però non motiva 
questo modo di vedere né si chiede se, per l’instaurazione di tale ordinamento, 
non si debba passare per uno o più dei problemi che invece con questo 
ordinamento si vorrebbero risolvere. 
 Egli poi aggiunge “Un altro motivo ancora — e forse il più importante — era 
costituito dal fatto che l’ideale di una Federazione Europea, preludio di una 
Federazione Mondiale, mentre poteva apparire lontana utopia ancora qualche anno 
fa, si presenta oggi, alla fine di questa guerra, come una mèta raggiungibile e 
quasi a portata di mano”.. E questo abbiamo visto come fosse in realtà un pio 
desiderio. 
 Ancora Colorni afferma che “Il nostro Movimento non è e non vuol essere un 
partito politico. Così come si è venuto sempre più nettamente caratterizzando, 
esso vuole operare sui vari partiti politici e nell’interno di essi, non solo 
affinché l’istanza internazionalista venga accentuata, ma anche e 
principalmente affinché tutti i problemi della sua vita politica vengano 
impostati partendo da questo nuovo angolo visuale, a cui finora sono stati così 
poco avvezzi”. Ecco che quindi ricompare la minoranza illuminata che opera sui 
e nei partiti politici.
 Nel Manifesto vero e proprio (analizziamo in questo contesto anche una prima 
versione del Manifesto del 1943, perché a nostro parere essa rivela l’ideologia 
sottesa dei suoi estensori meglio di quella successiva e definitiva del 1944) 
si dice “L’ideologia dell’indipendenza nazionale è stata un potente lievito di 
progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta 
solidarietà contro l’oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti 
degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha 
fatto estendere, dentro al territorio di ciascun nuovo Stato, alle popolazioni 
più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. 
Essa portava però in sé i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra 
generazione ha visto ingigantire, fino alla formazione degli Stati totalitari 
ed allo scatenarsi delle guerre mondiali”. 
 Qui possiamo vedere come gli autori attribuiscano la nascita degli 
imperialismi ai nazionalismi, mentre l’analisi materialistica ipotizza che 
l’accumulazione di capitale ad un determinato livello condiziona il perimetro 
all’interno del quale il nazionalismo attecchisce e si sviluppa. 
 Inoltre si reitera l’atteggiamento paternalista tra culture quando si dice “ha 
fatto estendere, dentro al territorio di ciascun nuovo Stato, alle popolazioni 
più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili” 
(forse per giustificare la soggezione nella quale era tenuto il Meridione 
d’Italia?). 
 Nella seconda e definitiva versione del Manifesto non a caso non si parla più 
di nazionalismoimperialista ma di imperialismo capitalista, quasi a voler 
sfumare un presupposto teorico sbagliato.
 Si parla anche di “spazio vitale” (l’espressione fatta propria dal 
nazifascismo per giustificare l’innesco del conflitto mondiale), quasi fosse 
una sorta di desiderio irrazionale di espansione (e quindi derubricandolo ad 
espressione di mera volontà politica), quando si tratta dell’espressione 
ideologica che si collega all’esigenza imperialistica che è interna alle 
contraddizioni del capitale, per il quale anche l’ambito della nazione diventa 
angusto ed oppressivo. Perciò la libera circolazione delle merci, che essi 
vedono solo come “fattore progressivo”, è allo stesso tempo uno dei momenti 
della dinamica imperialista nel momento in cui ad essa (post hoc e propter hoc) 
segue quella dei capitali.
 Gli autori hanno buon gioco ad evidenziare come anche nei periodi di pace il 
funzionamento degli ordinamenti che loro definiscono “liberi” (e cioè scuola, 
scienza e produzione) sia indirizzato totalmente alla guerra. Essi però, come 
in altre parti dell’elaborato, si fermano alla superficie delle cose. Non 
vedono che la proiezione bellica è proprio insita nella dinamica imperialistica 
(e quindi economica) che vede capitalismi in competizione tra loro che 
trascinano le nazioni con sé (e non nazioni che subordinano la produzione alla 
guerra). 
 La guerra è nella sua accezione moderna un momento della fisiologia (che è 
dialetticamente una patologia) capitalistica. E la produzione non è affatto un 
ordinamento libero. Anzi, le modalità con cui si produce sono modalità 
militari, in quanto la fabbrica sin dal suo inizio (sin da quando si 
costringeva in Inghilterra a lavorare nelle fabbriche) è una istituzione totale.
 E’ sintomatico come gli estensori del Manifesto attribuiscano tutti i mali 
all’iperbole politica, invece di guardare alla struttura economica: “Le madri 
vengono considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con 
gli stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche; i 
bambini vengono educati fin dalla più tenera età al mestiere delle armi e 
all’odio verso gli stranieri, le libertà individuali si riducono a nulla, dal 
momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestare 
servizio militare; le guerre a ripetizione costringono ad abbandonare la 
famiglia, l’impiego, gli averi, ed a sacrificare la vita stessa per obbiettivi 
di cui nessuno capisce veramente il valore; in poche giornate vengono distrutti 
i risultati di decenni di sforzi compiuti per aumentare il benessere 
collettivo”. 
 Le madri sono fattrici di lavoratori e devono essere prolifiche per riprodurre 
“l’esercito” industriale di riserva. I bambini sono dalla più tenera età posti 
sul mercato del lavoro. Le libertà individuali sono nulla appena varcato 
l’ingresso della fabbrica. La produzione costringe ad abbandonare la famiglia 
ed a sacrificare spesso la vita per obbiettivi di cui nessuno capisce il 
valore. La guerra è l’immagine un po’ più brutta della matrice che la genera e 
cioè il modo di produzione capitalistico. Ma il Manifesto di Ventotene questa 
paternità la nega e anzi retoricamente ci disegna l’opposizione tra una 
produzione pacifica e una politica belligerante.
 Anche quando si riferisce alla Germania, il quadro che fa il Manifesto 
riproduce uno stereotipo dove le considerazioni, fatte anche all’interno degli 
ideologi liberali (si pensi a Keynes), circa le responsabilità dei vincitori 
della Prima Guerra Mondiale nel determinare il trionfo del nazismo in Germania 
sono del tutto sottaciute.
 Nella prima parte (“Crisi della società moderna”) ci sono anche analisi che si 
ricollegano alla tradizione socialista e che cercano di ricollegare il 
totalitarismo nazifascista alla oppressione delle classi diseredate, ma la 
tendenza elitaria ricompare quando si dice, all’inizio della seconda parte “Nel 
breve intenso periodo di crisi generale, in cui gli stati nazionali giaceranno 
fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose la parola 
nuova e saranno materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme 
nuove, capace di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti …”
 Troviamo poi anche un principio ambiguo (perché utilizzabile in molti modi) 
quando si dice “Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il 
quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico 
che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non 
costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei”.
 Questo principio, ripreso dall’antifascismo, è stato poi uno dei fattori 
ideologici che ha permesso le guerre Usa contro l’Iraq, la Serbia e la Libia. 
Non a caso questo principio è stato fatto proprio dal fondamentalismo 
neoliberista dei Radicali Italiani, che sono stati sempre in prima fila nel 
sostegno ideologico e politico alle guerre condotte da Usa ed Europa dopo il 
crollo del socialismo reale.
 Singolare poi è la teoria sostenuta in questo passo dove si dice “Insolubili 
sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del 
continente: tracciati dei confini a popolazione mista, difesa delle minoranze 
allogene, sbocco al mare dei paesi situati nell’interno, questione balcanica, 
questione irlandese, ecc:, che troverebbero nella Federazione Europea la più 
semplice soluzione, come l’hanno trovata in passato i corrispondenti problemi 
degli staterelli entrati a far parte delle più vaste unità nazionali, quando 
hanno perso la loro acredine, trasformandosi in problemi di rapporti fra le 
diverse provincie”. 
 Infatti si pensa che l’unificazione europea contribuirebbe a risolvere i 
problemi interni a vari Stati, mentre la questione catalana è la dimostrazione 
che la tendenza alla concentrazione dei fattori produttivi – resa possibile 
dalla libera circolazione degli stessi a livello europeo (senza meccanismi di 
compensazione) – lacera ancora di più il circuito di solidarietà interno ai 
singoli Stati, a meno che qualcuno non riesumi il patriottismo nazionalista, 
per cui il processo di unificazione si configura come una sorta di fuga in 
avanti.
 Fa sorridere ed inquietare l’atteggiamento degli estensori verso la 
democrazia. Essi combinano la critica al totalitarismo nazionalistico ad un 
atteggiamento minoritario ed illuministico che non può che mostrarsi scettico 
verso le possibilità dei popoli di autodeterminarsi. Infatti dicono “I 
democratici non rifuggono per principio dalla violenza, ma la vogliono 
adoperare solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità, 
cioè propriamente quando non è più altro che un pressoché superfluo puntino da 
mettere sugli i. Sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria 
amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà 
delle istituzioni fondamentali, che debbono solo essere ritoccate in aspetti 
relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non 
debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce 
clamorosamente. La pietosa impotenza dei democratici nelle rivoluzioni russa, 
tedesca, spagnola, sono tre dei più recenti esempi. In tali situazioni, caduto 
il vecchio apparato statale, con le sue leggi e la sua amministrazione, 
pullulano immediatamente, con sembianza di vecchia legalità o sprezzandola, una 
quantità di assemblee e rappresentanze popolari in cui convergono e si agitano 
tutte le forze sociali progressiste. Il popolo ha sì alcuni bisogni 
fondamentali da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere e cosa fare. 
Mille campane suonano alle sue orecchie, con i suoi milioni di teste non riesce 
a raccapezzarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta tra loro”. 
 Il popolo per questi signori è sempre confuso. I milioni di teste li 
ossessionano ed hanno dunque bisogno di ridurre la complessità democratica con 
l’accetta. 
 Infine in questo passo si intravede la tendenza (in altre parti meno 
accentuata) di assimilare l’Urss alla situazione spagnola e tedesca, quasi 
rimpiangendo che il socialismo rivoluzionario russo non abbia avuto miglior 
sorte. E la critica alla burocrazia sovietica fa intravedere un’altra matrice 
astrattamente internazionalista, oltre quella del liberalismo ispirato dalla 
concezioni massoniche (si pensi a Briand e allo stesso Kalergi).
 Non finisce qui. Il Manifesto aggiunge “Nel momento in cui occorre la massima 
decisione ed audacia, i democratici si sentono smarriti non avendo dietro uno 
spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni; pensano 
che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori 
esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare” e ancora 
“La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi 
rivoluzionaria”.
 Giunti a questo punto, gli estensori del Manifesto si preparano a criticare il 
concetto marxista di lotta di classe ed affermano: “Man mano che i democratici 
logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della 
libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero 
immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pretotalitarie, e la 
lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione 
delle classi. Il principio secondo il quale la lotta di classe è il termine a 
cui van ridotti tutti i problemi politici, ha costituito la direttiva 
fondamentale, specialmente degli operai delle fabbriche, ed ha giovato a dare 
consistenza alla loro politica, finché non erano in questione le istituzioni 
fondamentali della società. Ma si converte in uno strumento di isolamento del 
proletariato, quando si imponga di trasformare l’intera organizzazione della 
società. Gli operai educati classisticamente non sanno allora vedere che le 
loro particolari rivendicazioni di classe, o di categoria, senza curarsi del 
come connetterle con gli interessi degli altri ceti, oppure aspirano alla 
unilaterale dittatura della loro classe, per realizzare l’utopistica 
collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione, indicata da 
una propaganda secolare come il rimedio sovrano a tutti i loro mali. Questa 
politica non riesce a far presa su nessun altro strato fuorché sugli operai, i 
quali così privano le altre forze progressive del loro sostegno, e le lasciano 
cadere in balia della reazione, che abilmente le organizza per spezzare le reni 
allo stesso movimento proletario”. 
 Dunque, per gli estensori del Manifesto, gli operai ispirati al principio 
della lotta di classe non farebbero una politica delle alleanze e quindi non 
riuscirebbero a raggiungere il potere. Questo assunto falso (l’alleanza tra 
operai e contadini nella rivoluzione russa come si dovrebbe considerare?) serve 
per introdurre un più sostanziale interclassismo funzionale alla ideologia 
elitaria degli autori. Anche questo passo non a caso viene in buona parte 
espunto nella versione definitiva, ma rimane il passo in cui si dice “Il fronte 
delle forze progressiste sarebbe facilmente frantumato nella rissa tra classi e 
categorie economiche”, in cui compare un astratto politicismo che derubrica la 
lotta di classe a rissa.
 Essi aggiungono “Questo atteggiamento rende i comunisti, nelle crisi 
rivoluzionarie, più efficienti dei democratici; ma tenendo essi distinte quanto 
più possono le classi operaie dalle altre forze rivoluzionarie – col predicare 
che la loro «vera» rivoluzione è ancora da venire – costituiscono nei momento 
decisivi un elemento settario che indebolisce il tutto”.
 Non sapendo quali siano queste altre forze rivoluzionarie, ci meravigliamo di 
come gli estensori del Manifesto credano in una rivoluzione di qua da venire e 
critichino quelli che prudentemente parlano di una rivoluzione di là da venire. 
L’anticomunismo del Manifesto si rende evidente quando si dice “Ma anche i 
comunisti, nonostante le loro deficienze, potrebbero avere il loro quarto 
d’ora, convogliare masse stanche, deluse, assumere il potere ed adoperarlo per 
realizzare, come in Russia, il dispotismo burocratico su tutta la vita 
economica, politica e spirituale del paese. Una situazione dove i comunisti 
contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo in 
senso rivoluzionario, ma già il fallimento del rinnovamento europeo”. 
 Anche questo passo viene omesso nella versione definitiva (probabilmente si 
sceglie un atteggiamento più sfumato verso il partito comunista italiano per 
quanto Altiero Spinelli fosse stato espulso dal Pci nel 1937). 
 Tuttavia la crescente inclinazione di Spinelli verso il liberismo (complice la 
lettura di Luigi Einaudi, che già dal 1893 parlava di Stati Uniti d’Europa e 
che, con lo pseudonimo Junius, nel 1920 aveva scritto delle lettere 
sull’unificazione europea) è evidente quando si dice “Le gigantesche forze di 
progresso che scaturiscono dall’interesse individuale, non vanno spente nella 
morta gora della pratica routinière per trovarsi poi di fronte all’insolubile 
problema di resuscitare lo spirito d’iniziativa con le differenziazioni nei 
salari, e con gli altri provvedimenti del genere; quelle forze vanno invece 
esaltate ed estese offrendo loro una maggiore opportunità di sviluppo e di 
impiego, e contemporaneamente vanno consolidati e perfezionati gli argini che 
le convogliano verso gli obbiettivi di maggiore vantaggio per tutta la 
collettività”
 Gli autori sognano un’alleanza tra la classe operaia e gli intellettuali, che 
eviti agli intellettuali una sorta di impotenza sociale e agli operai di 
appiattirsi sul classismo dottrinario, senza notare che la classe operaia aveva 
già nei suoi gruppi dirigenti intellettuali di alto livello e che, nel 
frattempo, Antonio Gramsci aveva già delineato un modello di intellettuale 
collettivo (proprio quel partito che gli elitari del Manifesto trattavano con 
ingiustificata supponenza). 
 Questa parodia di un bolscevismo in giacca e cravatta così conclude: “Durante 
la crisi rivoluzionaria spetta a questo partito organizzare e dirigere le forze 
progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si formano 
spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le forze 
rivoluzionarie, non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere guidate. 
Esso attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto, non da una 
preventiva consacrazione da parte della ancora inesistente volontà popolare, ma 
nella sua coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società 
moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima 
disciplina sociale alle nuove masse. Attraverso questa dittatura del partito 
rivoluzionario si forma il nuovo stato ed attorno ad esso la nuova democrazia. 
Non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente 
sbocciare in un nuovo dispotismo. Vi sbocca se è venuto modellando un tipo di 
società servile. Ma se il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo 
fin dai primissimi passi le condizioni per una vita libera, in cui tutti i 
cittadini possano veramente partecipare alla vita dello stato, la sua 
evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi politiche, nel 
senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del 
nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento 
di istituzioni politiche libere”. 
 Nella versione definitiva a “questo partito” si sostituisce “questo 
movimento”, aumentando nel lettore l’impressione di un pasticcio. Non si vuole 
fare il partito per velleità di entrismo, ma al tempo stesso si pretende di 
dirigere senza imporsi a propria volta una organizzazione. Il Manifesto di 
Ventotene, contrariamente a quello di Marx, invece di abbandonare la 
dissimulazione, intende perpetrarla rifiutando un contatto diretto con le masse 
e nascondendosi nelle istituzioni che pure considera compromesse dalla guerra.
 Perché tale ingenua e presuntuosa visione delle cose potesse avere il suo 
infelice successo, si è dovuto aspettare che essa si piegasse alla Forche 
Caudine del nascente imperialismo europeo, quell’imperialismo che essa vedeva 
solo nei cosiddetti totalitarismi e che invece si fa presente anche nelle 
democrazie liberali sempre meno democratiche e sempre meno liberali.
 


Rispondere a