Grecia passato e presente
 

 1) L’immensa “pulizia etnica” applicata alla Grecia. Dalla UE (di N. 
Konstandaras)
 2) La strage di Domenikon, opera di italiani per nulla “brava gente” (M. 
Cotugno Depalma) / Strage di civili greci a Domenikon nel '43, italiani 
archiviati (ANSA 15 febbraio 2019)
 3) Punture di spillo tra Tirana e Atene. Il caso ciamuriota da una parte, i 
diritti della minoranza greca in Albania dall'altra (Gjergji Kajana / OBC 
19/12/2016
 

 

 Sulla distruzione della Grecia da parte della Unione Europea si veda anche il 
reportage:
 "Come un colpo di stato" di Edward Geelhoed, De Groene Amsterdammer
 in versione italiana sulla rivista 'Internazionale' n.1243 del 16 febbraio 
2018 "Come si distrugge un paese"
 PDF: 
http://www.eltamiso.it/MioSito/wp-content/uploads/2018/02/Come-un-colpo-di-Stato-da-Internazionale-febbraio-2018.pdf
 
http://www.eltamiso.it/MioSito/wp-content/uploads/2018/02/Come-un-colpo-di-Stato-da-Internazionale-febbraio-2018.pdf
 https://www.internazionale.it/sommario/1243 
https://www.internazionale.it/sommario/1243
 

 

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http://contropiano.org/news/news-economia/2019/01/12/limmensa-pulizia-etnica-applicata-alla-grecia-dalla-ue-0111363
 
http://contropiano.org/news/news-economia/2019/01/12/limmensa-pulizia-etnica-applicata-alla-grecia-dalla-ue-0111363
 

 L’immensa “pulizia etnica” applicata alla Grecia. Dalla Ue


 di Nikos Konstandaras *
 12 gennaio 2019
 

 Angela Merkel è andata ad Atene. Non ci sono state le grandi contestazioni 
degli scorsi anni, ma c’è una ragione. Il paese ha perso, durante la crisi 
economica, quasi 700.000 abitanti: quasi tutti giovani, laureati o diplomati. 
Un esodo di massa che sta lasciando il paese senza più forze vitali, sia per 
produrre nuova ricchezza che – eventualmente – innescare un riscatto sociale 
basato sul conflitto.
 Questo articolo, apparso giovedì sul New York Times 
https://www.nytimes.com/2019/01/10/opinion/greeces-great-hemorrhaging.html?fbclid=IwAR2QM3NkISR2A0thhHcDpxla5DkhcgssK35Emq9ITGLVse7_jWNXP3BVUds,
 pur se scritto nel tono “british” che ci si attende da una testata 
anglosassone, restituisce un quadro di devastazione che neanche la Seconda 
guerra mondiale era stata in grado di produrre in quel paese.
 Per quanto lo si possa dire in modo freddo e neutro, infatti, la stima della 
popolazione ellenica – da qui a 30 anni, se si va avanti così, con il “pilota 
automatico” – è da post attacco nucleare: una riduzione tra 800.000-2,5 
milioni. Un mezzo “sterminio” diluito nel tempo, quasi senza spargimento di 
sangue o campi di concentramento, ma non senza tragedie e dolori,  che 
riguarderà tra il 10 e il 25% della popolazione originaria. Sommando 
emigrazione e fisiologia umana.

 Dietro i numeri dell’economia ci sono le persone in carne e ossa, si usa dire. 
Beh, in questo caso si dimostra che insieme alla distruzione dell’economia di 
un paese scompare anche la sua popolazione. Perché costretta ad emigrare 
(“migranti economici”, che qualcuno magari proporrà di rimandare “a casa loro”, 
se l’economia peggiorerà – come pare – anche là dove son andati) o non più in 
condizione di riprodursi.
 La lista delle conseguenze umane, antropologiche, culturali, ecc, è tutta da 
individuare, ma immensa. Una eradicazione così vasta di un popolo, di queste 
dimensioni, non si era mai vista dai tempi di Gengis Khan. Forse solo il grande 
arretramento delle popolazioni slave davanti all’invasione nazista può reggere 
al confronto. Ma, in quel caso, esisteva un ampio retroterra solidale e 
belligerante, e durò solo due-tre anni, seppure con costi umani mostruosi (la 
gran parte degli oltre 20 milioni di sovietici morti nella Seconda guerra 
mondiale erano civili).

 Quando diciamo che un sistema di produzione è intimamente criminale e 
criminogeno, qualcuno finge di stupirsi e grida all’esagerazione ideologica. 
 La pulizia etnica della Grecia dimostra invece che anche noi abbiamo fatto un 
errore: siamo stati troppo buoni e “ottimisti”. In proporzioni appena minori, è 
quello che sta avvenendo anche in Italia, e prima ancora che vengano applicate 
con altrettanta ferocia le “misure di aggiustamento strutturale” imposte dai 
trattati europei e dalle tecnoburocrazie della “Troika” (Ue. Bce, Fmi).
 E’ quello che sta avvenendo da anni in Africa e altri paesi, stretti tra 
schiavitù economica e attacchi militari espliciti, moltiplicando fino 
all’inverosimile fenomeni migratori altrimenti solo “fisiologici”.

 Quando ascoltate parlare un Monti, un Giavazzi, un Cottarelli o un Calenda, è 
questa sorte che ci stanno indicando come “necessaria”, “senza alternative”. 
Col sorriso sulle labbra. 
 Se ne sono accorti per tempo, forse, anche in Francia. E, almeno lì, hanno 
cominciato – solo cominciato – a far capire che non ci sarà più ovina 
obbedienza e “fiducia in questa classe dirigente”.

 .******
 La grande emorragia greca
 Nikos Konstandaras 
 Il governo greco, una coalizione di un movimento radicale di sinistra e un 
partito di destra nazionalista al potere dal 2015, ha celebrato la fine del 
terzo piano di salvataggio del paese lo scorso agosto come “ritorno alla 
normalità”. I nostri partner e creditori dell’Unione europea, che ha erogato 
288,7 miliardi di euro di prestiti negli anni precedenti, si sono anche 
affrettati a dichiarare vittoria sulla crisi iniziata nel 2010.
Tutti vogliono vedere la fine della crisi greca – non ultimo il popolo greco, 
che è stremato dalla lunga e profonda recessione, dalla continua austerità e 
dalle riforme i cui benefici non hanno visto.
Ma la Grecia è molto lontana dalla “normalità”. Si è fatto molto per rendere 
l’economia redditizia, ma il paese ha bisogno di un’esplosione di fiducia e di 
attività economiche: la ripresa porterebbe nuovi importanti investimenti, 
stabilità politica e ulteriori riforme alla pubblica amministrazione. Ma non 
solo il debito pubblico è maggiore di quanto non fosse nel 2009; i redditi dei 
cittadini sono stati tagliati, i loro beni svalutati, i loro beni persi, i loro 
debiti moltiplicati.
Le elezioni nazionali devono essere tenute in queste condizioni. I sondaggi 
mostrano che l’opposizione di centro-destra del partito Nuova Democrazia è 
davanti a Syriza, il senior partner della coalizione al governo, in un contesto 
che sta già peggiorando la polarizzazione della politica greca. Il governo, che 
era sempre a disagio con l’austerità e le riforme, promette aiuti; 
l’opposizione giura di rovesciare le politiche e le decisioni cui non è 
d’accordo.
 Nella più drammatica dimostrazione di sfiducia, si stima che oltre 700.000 
persone abbiano lasciato la Grecia dal 2010, cercando opportunità all’estero. 
Le morti sono più numerose delle nascite, in quanto le persone fanno meno figli 
o non osano affatto farne. Ricerche recenti suggeriscono che, ai tassi attuali, 
la popolazione della Grecia, che nel 2015 era di circa 10,9 milioni, potrebbe 
ridursi di una cifra tra 800.000 e 2,5 milioni di persone entro il 2050. La 
forza lavoro è costituita attualmente da circa 4,7 milioni di persone. Una 
popolazione lavorativa molto più piccola dovrà sostenere un numero crescente di 
pensionati, con una minore crescita e minori entrate, dovute a costi più 
elevati della sicurezza sociale.
La crisi ha danneggiato le imprese. Diminuzione della domanda interna, 
condizioni di credito strette, controlli sui capitali, incertezza politica e 
trasferimenti all’estero hanno causato il dimezzamento della produzione delle 
piccole e medie imprese. Tali imprese sono la linfa vitale dell’economia, visto 
che generano un quarto del Pil e il 76% dell’occupazione del paese.
Con un leggero ritorno alla crescita nel 2017, le imprese hanno iniziato a 
riprendersi. Nei primi sei mesi del 2018, le 153 società quotate alla Borsa di 
Atene riportavano profitti pre-tasse per 957 milioni di euro, secondo quanto 
riferito dalla società di consulenza ICAP. Tuttavia, se confrontate con il 
debito pubblico, queste cifre indicano la sfida che i greci affrontano nei 
prossimi anni.
Nel 2009, il debito pubblico è stato di 299,7 miliardi di euro, pari al 130% 
del PIL. Da allora, la Grecia ha preso in prestito 288,7 miliardi di euro dagli 
Stati membri e dalle istituzioni dell’Unione europea e dal Fondo monetario 
internazionale. Inoltre, nel 2012 sono stati svalutati circa 107 miliardi di 
euro di debito. Eppure, il debito pubblico nel 2018 è arrivato a 357,25 
miliardi di euro – superiore ai numeri che la Grecia non è riuscita a far 
fronte in precedenza.
Alcuni indicatori suggerirebbero che la Grecia è sulla strada giusta. La 
disoccupazione è scesa al 18,3%, da un picco del 27,9% nel 2013. Nel 2018 si 
stima che l’avanzo primario abbia superato l’obiettivo fissato dai creditori 
per il terzo anno consecutivo. Ma questo ha avuto un costo elevato: i pagamenti 
ritardati da parte dello stato a privati e aziende, così come ulteriori tagli 
ai finanziamenti per la sicurezza sociale, ospedali e altri servizi.
 La compressione della spesa continuerà per decenni, dal momento che la Grecia 
è impegnata a mantenere un’eccedenza annuale del 3,5% fino al 2022 e sarà 
sottoposta a una rigorosa supervisione finché non ripagherà i suoi prestiti 
entro il 2060. Questo problema è aggravato dall’enorme crescita del debito 
privato. Quasi la metà dei crediti totali concessi dalle quattro principali 
banche del paese, circa 86 miliardi di euro, sono inesigibili o vicine ad 
esserlo. Ciò impedisce alle banche di iniettare denaro nell’economia. Le 
aziende che cercano di prendere a prestito all’estero devono affrontare alti 
tassi di interesse.
Circa 4,2 milioni di persone sono in arretrato con lo Stato, con debiti non 
coperti per le imposte di circa 103 miliardi di euro. Le autorità hanno 
confiscato stipendi, pensioni e beni ad oltre un milione di persone. I debiti 
arretrati verso i fondi di sicurezza sociale sono attualmente pari a 34,4 
miliardi di euro.
Con le tasse elevate e con quasi la metà dei nuovi posti di lavoro a tempo 
parziale ridotto o lavoro a turni, è probabile che questi debiti cresceranno. 
Oggi sono classificate a rischio di povertà o esclusione sociale più persone 
(34,8% della popolazione nel 2017) rispetto all’inizio della crisi (27,7%).
I poveri sono diventati più poveri mentre la classe media ha faticato sotto la 
pressionecrescente. Le tasse sulla proprietà, da circa 600 milioni di euro 
prima della crisi, sono salite a 3,7 miliardi di euro nel 2017. Circa il 19% 
dei contribuenti copre il 90% delle entrate fiscali, ha riconosciuto il primo 
ministro Alexis Tsipras. 
 I valori delle proprietà riflettono tasse più elevate e affitti più bassi, con 
appartamenti che perdono in media il 41% in valore tra il 2007 e il 2017, 
secondo la Banca di Grecia.
La necessità di pagare le tasse e di soddisfare altri obblighi ha visto i 
depositi privati nelle banche greche scendere a 131,385 miliardi di euro lo 
scorso novembre, da 237,8 miliardi nel 2009. Molte persone, per sopravvivere, 
sono state costrette a vendere monili d’oro e altri oggetti di valore. Le 
agenzie di pegno e i compro-oro hanno fatto grandi affari in tutto il paese, 
sciogliendo gioielli e altri oggetti in lingotti d’oro.
La polizia ha recentemente arrestato decine di persone sospettate di 
contrabbandare oro in Turchia. Il giro d’affari giornaliero era in media di 
400.000 euro – l’equivalente di circa 11 chilogrammi d’oro al giorno. Il 
controllo era un vero disastro: si è scoperto che i concessionari non avevano 
bisogno di permessi per esportare in Turchia. L’inchiesta, tuttavia, ha fatto 
luce su uno dei costi personali della crisi meno visibili.
 Ma da nessuna parte l’emorragia della Grecia è più grave che nella partenza 
dei giovani. La Grecia ha visto emigrazioni di massa in passato, perché 
povertà, guerra, dittature e mancanza di prospettive hanno spinto soprattutto 
le persone non qualificate a cercare fortuna in America, Australia, Europa e 
Africa. 
 Questa volta, però, la maggior parte di coloro che lasciano stanno privando il 
paese delle proprie capacità e dei propri investimenti. Circa il 92% dei nuovi 
emigranti è laureato all’università o in istituti tecnici, con il 64% del 
totale dei diplomi post-laurea, compresi i dottorati, ha scoperto la consulenza 
ICAP in un sondaggio su 1.068 greci in 61 paesi. Circa 18.000 medici hanno 
lasciato il paese durante la crisi; secondo l’Associazione medica di Atene, per 
ciascuno lo stato aveva speso 85.000 euro.
Il paradosso è che la Grecia forma professionisti a costi elevati, ma non può 
offrire loro la stabilità e le opportunità di cui hanno bisogno per poterli 
impiegare nel paese. Ciò avvantaggia i paesi destinatari e ostacola la crescita 
della Grecia, quando le aziende non riescono a trovare dipendenti con le 
competenze di cui hanno bisogno. Inoltre, quando i più giovani rimangono fuori 
dalla forza lavoro, non traggono profitto dall’esperienza degli anziani, 
portando ad un’ulteriore perdita di competenze e ad una minore produttività.
A maggio, le elezioni in tutta l’Unione europea determineranno non solo 
l’adesione al Parlamento europeo, ma anche chi dirigerà il suo organo 
esecutivo, la Commissione europea. E un nuovo presidente sarà selezionato per 
la Banca centrale europea.
In un mondo sempre più instabile, nessuno vuole una crisi greca all’ordine del 
giorno. Ma la battaglia del Paese è lungi dall’essere conclusa. Il recupero 
dipende dagli sforzi degli stessi greci e dal sostegno di un’Unione europea che 
è determinata a procedere nello stesso modo piuttosto che concedere la 
divisione dei rischi. Quest’anno mostrerà in che modo sono diretti la Grecia e 
l’Unione europea nel suo complesso.
 
* Nikos Konstandaras è un editorialista del quotidiano greco Kathimerini e 
collaboratore del New York Times.

 

 === 2 ===
 

 
http://www.opinione-pubblica.com/il-massacro-di-domenikon-storia-di-una-tragedia-occultata-e-dimenticata/
 
http://www.opinione-pubblica.com/il-massacro-di-domenikon-storia-di-una-tragedia-occultata-e-dimenticata/
 

 Il Massacro di Domenikon: storia di una tragedia occultata e dimenticata
 
"Italiani brava gente"? Spesso lo si è detto e spesso lo si continua a dire. Ma 
dalla storia emergono anche racconti diversi, che mettono in difficoltà questa 
narrazione tesa all'autoassoluzione. Domenikon è uno di questi episodi: un 
massacro in piena regola, al punto da venir definito come la "Marzabotto della 
Tessaglia", compiuto durante l'occupazione della Grecia da parte delle forze 
italiane e tedesche.

Di Michele Cotugno Depalma -  10 Novembre 2018
 

 A molti, anzi a moltissimi, la parola Domenikon potrebbe non significare nulla.
 
 Tanti potrebbero fare ipotesi su cosa possa essere. Un nome greco. Un 
personaggio importante. Un artista, un poeta, uno scultore. No, niente di tutto 
questo. È semplicemente il nome di un paesino circondato dalla macchia, da 
ginepri, cardi e rosmarini. Oggi. Già, oggi. Perché 75 anni fa ha significato 
ben altro.
 Un eccidio, e per giunta italiano. Una pagina scura, scurissima della nostra 
storia. Un crimine brutto. Disgustoso. E, per decenni, sottaciuto e nascosto. 
Talmente orrendo che per alcuni storici è, addirittura, la “Marzabotto” di 
Tessaglia. In stile nazista, solo un po’ meno scientifico. È stato il primo 
massacro di civili in Grecia durante l’occupazione, stabilendo un modello. E 
sbugiardando il detto che “gli italiani sono brava gente”.
 Domenikon – è la convinzione degli esperti – è il primo di una serie di 
episodi repressivi nella primavera-estate 1943. Il generale Carlo Geloso, 
comandante delle forze italiane di occupazione, emanò una circolare sulla lotta 
ai ribelli il cui principio cardine era la responsabilità collettiva. Per 
annientare il movimento partigiano andavano annientate le comunità locali. 
L’ordine si tradusse in rastrellamenti, fucilazioni, incendi, requisizione e 
distruzione di riserve alimentari. A Domenikon sono seguiti eccidi in Tessaglia 
e nella Grecia interna. Altri 30 cadaveri innocenti morti per “vendetta”.
 Il giorno da segnare e da riempire di vergogna è il 16 febbraio 1943. Il dì in 
cui gli italiani si sono trasformati in bestie feroci e senza scrupoli. Perché 
dovevano vendicare i soldati, ben nove, uccisi dal fuoco dei partigiani greci.
 Era accaduto, infatti, che gli autoctoni, i greci, hanno osato fare fuoco 
dalla collinetta a un convoglio di militari italiani al loro passaggio. Per 
questo, allora, come le più spietate delle vendette, i greci andavano puniti: 
non i partigiani, i civili. Domenikon andava distrutta. Delenda est, avrebbero 
detto i romani. Per dare a tutti “una salutare lezione”, come scrisse poi il 
generale Cesare Benelli, che comandava la divisione Pinerolo.
 Il primo pomeriggio, quindi, i nostri connazionali hanno circondato il 
villaggio, rastrellato la popolazione e un primo raduno sulla piazza centrale. 
Poi dal cielo sono arrivati i caccia col fascio littorio bassi, rombando, 
scaricando le loro bombe incendiarie. Case, fienili, stalle, in fiamme tra le 
urla delle donne, i muggiti lugubri delle vacche.
 Al tramonto, dopo esser stati separati dalle donne, tra pianti e calci, a 
tutti i maschi sopra i 14 anni e fino agli 80 anni di età, è stato promesso che 
sarebbero stati trasferiti in un’altra località per gli interrogatori. 
Menzogna. Come il “Die arbeit macht frei” che riecheggiava nei campi di 
concentramento. È successo che, di lì a qualche ora, quasi un centinaio di loro 
sono stati fucilati senza pietà, e la notte e l’indomani i soldati della 
Pinerolo hanno assassinato per strada e per i campi pastori e paesani che si 
erano nascosti. Un’altra carneficina. Che ha fatto salire il totale dei morti a 
150. Che diventano 180 contando anche quelli delle rappresaglie successive.
 L’episodio è stato per decenni occultato, nascosto e dimenticato finché non è 
arrivato un illuminante documentario chiamato “’La guerra sporca di Mussolini”, 
diretto da Giovanni Donfrancesco e prodotto dalla GA&A Productions di Roma e 
dalla televisione greca Ert, a vomitare tutto.
 In Italia, il documentario è stato rifiutato dalla Rai, e trasmesso dalle 
emittenti Mediaset il primissimo pomeriggio del 3 gennaio 2010. Il film, che ha 
riaperto una pagina odiosa dell’Italia fascista, si basa su ricerche recenti 
della storica Lidia Santarelli, docente al Centre for European and 
Mediterranean Studies della New York University. Il prodotto ha detto tante 
cose. Ha svelato molteplici episodi della campagna italiana in Grecia, dove 
eravamo fin dal 1940 per dare una mano – poi, in realtà, siamo stati un peso – 
ai tedeschi.
 L’occupazione (sino al settembre ’43 gli italiani amministrarono due terzi 
della Grecia, un terzo i tedeschi) si è caratterizzata per le prevaricazioni 
continue ai danni di innocenti. Abitanti di Atene morti di fame gettati come 
stracci agli angoli delle strade. Un altro capitolo poco studiato è la 
prostituzione: migliaia di donne prese per fame e reclutate in bordelli per 
soddisfare soldati e ufficiali italiani.
 Domenikon è stata riconosciuta città martire nel 1998, ma non è diventata 
memoria collettiva, come Marzabotto. Perché? Perché molti greci non conoscono 
queste vicende. Perché? Già nel 1948, con la rinuncia del governo a chiedere 
l’estradizione dei criminali italiani, la questione si è chiusa.
 I processi non sono mai stati istruiti.

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http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2019/02/15/strage-greci-nel-43italiani-archiviati_176cafe9-5479-46b2-849e-03388860d678.html
 
http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2019/02/15/strage-greci-nel-43italiani-archiviati_176cafe9-5479-46b2-849e-03388860d678.html
 

 Strage di civili greci a Domenikon nel '43, italiani archiviati


 I responsabili sono morti o non identificati
 

 Redazione ANSA
ROMA 15 febbraio 2019
 

 Nessun colpevole per la strage di Domenikon, in Grecia, dove durante la 
seconda Guerra mondiale, il 16 febbraio 1943, almeno 140 civili greci furono 
uccisi dai militari italiani. L'archiviazione, disposta dal gip militare di 
Roma Elisabetta Tizzani nei mesi scorsi, si è appresa solo ora.

La lunga indagine, avviata dall'allora procuratore militare di Roma Marco De 
Paolis, si è conclusa con una richiesta di archiviazione per 9 degli 11 
indagati, perché morti, e per gli altri due perché non è stato possibile 
identificarli compiutamente.

A Domenikon, piccolo villaggio della Tessaglia, un attacco partigiano contro un 
convoglio italiano provocò la morte di nove soldati delle Camicie Nere. Come 
reazione il generale Cesare Benelli, comandante della Divisione 'Pinerolo', 
ordinò la repressione secondo l'esempio nazista: centinaia di soldati 
circondarono e dettero alle fiamme il paese, rastrellarono la popolazione e, 
nella notte, fucilarono circa 140 uomini e ragazzi dai 14 agli 80 anni. La 
storia di questo massacro dimenticato venne raccontata in un documentario - "La 
guerra sporca di Mussolini" - trasmesso nel marzo 2008 su History Channel. Fu 
proprio in seguito a questa trasmissione e ad alcuni articoli di stampa che 
venne incardinato un primo procedimento, archiviato nell'ottobre 2010. Un anno 
dopo, però, la denuncia di un cittadino greco, rappresentante dei familiari 
delle vittime della strage e nipote di uno dei civili fucilati, indusse il 
procuratore De Paolis (oggi procuratore generale militare) a disporre 
"ulteriori e più approfonditi accertamenti". Le indagini hanno in primo luogo 
ricostruito l'organigramma della Divisione 'Pinerolo', responsabile 
dell'eccidio, e poi i fatti avvenuti a Domenikon. Tutto ciò attraverso l'esame 
di una gran quantità di rapporti, relazioni e documenti trovati in diversi 
archivi militari dello Stato, una consulenza tecnica realizzata dalla storica 
Lidia Santarelli, della Columbia University, e le testimonianze delle 
pochissime persone "informate dei fatti" ancora in vita. All'esito di queste 
attività, undici persone sono state iscritte nel registro degli indagati per il 
reato di "violenza con omicidio contro privati nemici", aggravato dalla 
crudeltà e dalla premeditazione.

Un crimine di guerra più grave del delitto di rappresaglia, ipotizzato nella 
precedente inchiesta archiviata, e riguardante la "uccisione deliberata e 
consapevole di persone civili estranee alle operazioni belliche". L'elenco 
degli indagati includeva - insieme al generale Benelli, comandante della 
Pinerolo - il generale Angelo Rossi, comandante del terzo corpo d'armata e nove 
graduati, in gran parte del Gruppo Battaglioni d'assalto Camicie nere 
"L'Aquila". Ma tutti i principali autori del fatto - e cioè, scrive il pm, sia 
"chi dispose e organizzò la spedizione criminale", sia chi "ebbe a eseguire 
materialmente le uccisioni, obbedendo ad ordini manifestamente criminosi" - 
risultano essere morti o "ignoti", come i due Capi Manipolo delle Camicie Nere 
Penta e Morbiducci, che non è stato possibile localizzare e individuare 
compiutamente. Ugualmente "ignoti" tutti quei militari che hanno proceduto alle 
fucilazioni, che sono rimasti del tutto sconosciuti. Da qui la richiesta di 
archiviazione, poi disposta dal gip.
 

 

 === 3 ===
 

 
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Punture-di-spillo-tra-Tirana-e-Atene-176277/
 
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Punture-di-spillo-tra-Tirana-e-Atene-176277/
 

 Punture di spillo tra Tirana e Atene 


 
 Il caso ciamuriota da una parte, i diritti della minoranza greca in Albania 
dall'altra. Sono mesi di relazioni tese tra Tirana ed Atene, nonostante i due 
rispettivi ministri degli Esteri abbiano concordato incontri periodici per 
dirimere i principali attriti
 

 19/12/2016 -  Gjergji Kajana 
http://www.balcanicaucaso.org/Autori/(author)/Gjergji%20Kajana
 Dal suo insediamento nel settembre 2013 il governo albanese guidato da Edi 
Rama persegue una politica estera di intenso avvicinamento all’UE (Tirana spera 
di aprire i negoziati di adesione l’anno prossimo dopo aver ottenuto una 
raccomandazione positiva a ottobre) e di “zero problemi” con i paesi vicini. 
Uno di essi è la Grecia, con la quale l’Albania condivide dal 2009 l’adesione 
nella Nato e nel cui appoggio spera per velocizzare le tappe di adesione 
nell’Unione. Il problema maggiore tra questi due vicini è però un caso 
storico-politico che riaffiora periodicamente, raffreddando il clima di 
collaborazione tra le due capitali: il caso ciamuriota.
 I ciamurioti sono un'importante comunità di etnia albanese proveniente da 
un'area che nel primo Novecento faceva parte dell’Impero Ottomano e che venne 
inclusa entro i confini greci dopo le guerre balcaniche del 1912-1913. L’area è 
incentrata sul fiume Tsamis, dal quale prende il nome. Si trova al confine 
attuale tra i due paesi.
 Gli abitanti albanesi sono fuggiti in massa da quelle terre verso l’Albania 
subito dopo le guerre balcaniche e nell’ultimo periodo della Seconda guerra 
mondiale, durante la quale per la storiografia e la politica greca sono 
accusati di essere stati collaboratori dei nazisti. La migrazione verso nord è 
stata molto accelerata da violenze subite da parte di militari greci. Nel 1953 
hanno poi ottenuto in massa la cittadinanza albanese.
 Stato di guerra e caso ciamuriota Ora un eventuale loro ritorno nelle terre di 
origine è impedito anche - secondo la parte albanese - dall’esistenza 
tecnicamente di uno stato di guerra tra Grecia e Albania. Esso fu proclamato il 
10 novembre 1940 da Atene perché l’invasione del territorio ellenico da parte 
degli italiani avvenne dal territorio dell’Albania, occupata e formalmente 
parte dell’Impero fascista. Il governo greco la abolì il 28 agosto 1987, ma la 
decisione non è stata ratificata dal Parlamento greco, malgrado l’Albania 
l’abbia chiesto più volte.
 Secondo l'Albania lo stato di guerra viene mantenuto per giustificare il 
sequestro delle proprietà in Grecia dei ciamurioti migrati. Atene dal canto suo 
nega sia l’esistenza di un caso ciamuriota che dello stato di guerra, come 
ribadito più volte   
http://www.mfa.gr/en/current-affairs/top-story/joint-statements-of-foreign-minister-kotzias-and-the-foreign-minister-of-the-republic-of-albania-ditmir-bushati-following-their-meeting-in-tirana-june-2016.htmldal
 ministro degli Esteri Nikos Kotzias.
 Quest'ultimo, durante una sua visita a Tirana nel giugno di quest’anno – 
grazie alla quale lui e l’omologo albanese Ditmir Bushati si sono accordati 
sull’istituzione di un meccanismo diplomatico comune per trattare le 
problematiche bilaterali - è stata destinatario di manifestazioni di protesta 
da parte della comunità ciamuriota.
 Si inserisce l'UE Il 28 settembre nel dibattito si è inserita anche l’Unione 
Europea, attraverso il Commissario all’Allargamento Johannes Hahn. Per la prima 
volta Bruxelles ha riconosciuto l’esistenza del caso ciamuriota, segnando un 
punto a favore delle posizioni di Tirana sulla materia. In risposta a 
un'interrogazione dell'europarlamentare greco Maria Spyraki sul fatto se le 
azioni del Partito della comunità ciamuriota in Albania (PDIU) fossero o meno 
in linea con le relazioni di buon vicinato, precondizione per fare avanzare la 
candidatura albanese di aderire nell’UE, il commissario Hahn ha affermato: “La 
Commissione ha benevolmente accolto il fatto che entrambi i paesi stiano 
discutendo la creazione di un meccanismo comune, per promuovere incontri 
periodici per discutere delle problematiche in sospeso. Queste includono la 
definizione di una piattaforma continentale   
https://it.wikipedia.org/wiki/Piattaforma_continentalee le aree marittime tra 
Albania e Grecia, i diritti delle minoranze e il caso ciamuriota”.
 Furioso, il ministero degli Esteri greco ha definito in una nota   
http://www.mfa.gr/en/current-affairs/statements-speeches/announcement-by-the-foreign-ministry-on-commissioner-hahns-response-to-the-question-of-maria-spyraki-mep-for-nd-regarding-albania.html“non
 veritiera e inaccettabile” questa risposta di Hahn, ribadendo in seguito con 
forza: “E’ ben noto che non esiste un 'caso ciamuriota' e che esso non è stato 
accettato come questione nelle discussioni tra i governi di Albania e Grecia”. 
Maja Kocijančič, portavoce del commissario, si è limitata a riaffermare di 
fronte ai giornalisti che la Commissione accoglieva benevolmente le intenzioni 
di Tirana e Atene di procedere a un continuo dialogo bilaterale. Per Bruxelles, 
quindi, il caso ciamuriota esiste ed è dovere dei due partner balcanici 
procedere a risolverlo.
 Battibecchi La dichiarazione di Hahn ha creato un clima nel quale sono 
cominciate punture di spillo tra le due capitali, non interrotte dalla visita 
ad Atene del Presidente del Parlamento albanese Ilir Meta.
 La nuova posizione di Bruxelles è stata interpretata come un assist dal 
segretario del PDIU Shpëtim Idrizi, alleato del governo Rama e vicepresidente 
del Parlamento. Per il suo partito ai danni dei ciamurioti è stato perpetrato 
un genocidio e, oltre a permettere il ritorno dei membri di questa comunità 
nelle loro terre di origine e la riappropriazione delle loro proprietà, Atene 
dovrebbe corrispondergli delle indennità. Idrizi preme pubblicamente sul 
governo albanese perché porti il caso ciamuriota anche in sede NATO – 
eventualità che innalzerebbe le tensioni oltre un limite di guardia.
 Inoltre, in polemica diretta con Vangjel Dule, segretario del partito della 
minoranza greca in Albania (PBDNJ), il 3 novembre in parlamento il premier 
albanese Edi Rama ha chiesto ad Atene di abolire lo stato di guerra.
 Le punture di spillo non riguardano solo i ciamurioti. La polemica Rama–Dule 
era stata scatenata dalla decisione delle autorità albanesi di demolire 19 
costruzioni appartenenti a membri della minoranza greca in Albania nella città 
meridionale di Himara 
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Il-caso-Himara-41407, nel quadro di 
una riconfigurazione urbanistica dell’area. Oltre che da Dule, la decisione 
albanese è stata contestata da due note successive    
http://www.mfa.gr/en/current-affairs/statements-speeches/foreign-ministry-announcement-on-the-threat-of-demolition-of-homes-belonging-to-members-of-the-greek-national-minority.htmldel
 ministero degli Esteri di Atene, che accusava Tirana di violare i diritti 
delle minoranze.
 Nel suo discorso del 3 novembre Rama ha indirettamente polemizzato anche con 
questa posizione ed ha affermato che la demolizione delle costruzioni ad Himara 
rientra pienamente nella corretta applicazione del diritto albanese. Una 
telefonata con l’omologo greco Alexis Tsipras ha tentato di allentare le 
tensioni.
 Dialogo quanto mai necessario Le posizioni di Rama – riaffermate in 
un'intervista sulla TV greca SKAI    
http://www.ekathimerini.com/213946/article/ekathimerini/news/albania-pm-reiterates-cham-community-claimsil
 22 novembre scorso – sul caso ciamuriota (per lui “una questione albanese”) e 
lo stato di guerra sono le più assertive mai assunte da un capo di governo 
dell’Albania postcomunista nei confronti della Grecia e rendono necessaria la 
continuazione del dialogo sulla base del meccanismo Bushati–Kotzias.
 Il caso ciamuriota e le demolizioni di Himara non sono l’unica materia di 
dialogo bilaterale: rimane sospesa da 7 anni la definizione del confine 
marittimo tra i due paesi, dopo che nel 2010 la Corte Costituzionale di Tirana, 
chiamata ad esprimersi dai socialisti di Rama, rigettò come incostituzionale un 
precedente accordo del 2009. Sicuramente le posizioni albanesi sono rafforzate 
dalla dichiarazione Hahn e dal fatto che Tirana si aspetta a breve l’apertura 
dei negoziati di adesione con Bruxelles.
 Nel caso le tensioni diplomatiche dovessero intensificarsi e Atene si mettesse 
di traverso al percorso albanese verso l’UE (dove detiene un diritto di veto 
che già esercita sulla candidatura macedone), Bruxelles potrebbe però vedersi 
costretta di passare dagli inviti al dialogo alla mediazione tra le due 
capitali.

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